“Dalla A alla Z”: D come Cristiano De Andrè

Cristiano De Andrè

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla D come Cristiano De Andrè. A cura di Francesco Costa

La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla D, D come Cristiano De Andrè.

Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.

“Dalla A alla Z”: D come Cristiano De Andrè

La nostra immaginazione ha bisogno di spazio, lo spazio di un paesaggio in continua evoluzione, il paesaggio calmo e tempestoso del mare della Sardegna. Si è rifugiato lì, nella villa di famiglia, lontano dalle fauci di Milano, l’artista della puntata di oggi che si è perso e ritrovato nelle vie che l’hanno cresciuto. Ha creduto a troppa gente, troppe facce in chiaroscuro, ma batte il suo cuore più forte di ogni tamburo. Più forte di ogni dolore. Più forte del timore di non essere all’altezza. Il suo nome inizia con la lettera D, D come Cristiano De André.

Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai operare se so che la nostra storia è finita? Un interrogativo di lancinante profondità che si pone Pier Paolo Pasolini nella raccolta di poesie “Le ceneri di Gramsci” e che ci mette in relazione con il peso gravoso dei fasti raggiunti dai nostri avi. Un peso annichilente che può farci desistere dal tentare di produrre qualcosa di nuovo, rendendoci talmente invisibili che non ci vediamo mai. E su questo filosofico quesito, credo che Cristiano ci abbia riflettuto particolarmente, cercando di capire a noi figli “Ciò che ci resta”. Si chiama così una sua dolce e delicata canzone, quasi sognante, pubblicata nel 1995 con l’album “Sul confine”. E cosa ci rimane effettivamente? Forse, la consapevolezza che non è più necessario lo straordinario. Basta lasciarsi portare e insieme alla corrente viaggiare.

Alla realizzazione di questo brano partecipa anche il maestro Eugenio Finardi che cura nello stesso disco “L’era dell’oro” in cui emerge la sensazione di aver tenuto tra le mani il migliore dei mondi e di averlo buttato via. E nonostante il pezzo si concluda con la consolazione di saper sognare e poter ancora suonare, nonostante stia dimostrando di avere qualcosa da dire, è come se venisse costantemente messo a confronto con il mito del padre. Con Finardi, tra l’altro, collabora già qualche anno prima, nel ’92, in “Verrà il tempo” che spicca tra le tracce dell’album “Canzoni con il naso lungo”. Protagonista del testo è Lucia che ha vent’anni, non mangia mai, non parla, se parla grida eppure come lui crede che prima o poi potrà aprire un giorno nuovo e cambiare questo cielo.

Pochi mesi dopo, ottiene uno dei traguardi più importanti della sua carriera, il secondo posto al Festival di Sanremo del 1993 con “Dietro la porta”, canzone pop d’autore malinconica che profuma della polvere dei ricordi ma è caratterizzata al tempo stesso da una sincera curiosità per il futuro. «C’è un tempo preciso, un momento anche per te», canta nel pezzo. Quel tempo che ha un’età che non ti scegli mai, piena di colori che cambieranno dentro l’anima di cui parla in “Briciola di pane”, brano dell’87 dedicato alla sua bimba nata pochi mesi prima. Non è semplice fare i conti con la genitorialità quando hai solo ventiquattro anni e lui – che come tutti i figli d’arte convive con il rischio di essere messo in ombra da quella stessa arte – sceglie di onorare chi l’ha messo al mondo. Non per altro, la bambina si chiama Fabrizia.

Si chiama come il nonno che ha arricchito di musica e cultura l’infanzia e l’adolescenza di Cristiano. Se cresci nell’arte, o te ne distacchi o te ne innamori a tua volta e l’amore – si sa – fa soffrire. E sebbene Fabrizio abbia cercato invano di proteggerlo e dissuaderlo dal proseguire il complesso cammino dell’artista – ancora più tortuoso se sei figlio di Faber – lui nel fangoso mondo della discografia ci cade con entrambi i piedi. Studia al Conservatorio Niccolò Paganini di Genova per poi fondare negli anni ottanta la band Tempi duri con cui dà vita all’unico album “Chiamali tempi duri”. Ma il progetto naufraga rapidamente e si getta a capofitto nella carriera da solista. 

Siamo nel 1985 quando, a differenza del padre che l’ha sempre rifiutato bollandolo come troppo commerciale e competitivo, approda per la prima volta all’Ariston di Sanremo tra le nuove proposte della kermesse. Con gli stessi capelli lunghi e lo stesso sguardo nostalgico di Fabrizio, esibendosi con la sua “Bella più di me”, non vince ma conquista il Premio della Critica e in concomitanza si presenta ufficialmente al pubblico con l’album eponimo “Cristiano De Andrè”  che contiene tra le tracce “Il cielo non cadrà”. Quella del cielo, così come quella del mare e del tempo, è un’immagine che campeggia sovrana nelle sue canzoni. E forse non cadrà, davanti ai nostri “Occhi distratti”, perché “Il cielo è vuoto”.

È questo il nome del brano con cui si ripresenta al Festival nel 2014 dopo più di dieci anni trascorsi senza uscire con inediti, dieci anni dolorosi in cui perde anche sua madre e resta all’improvviso senza radici. A volerlo – dopo averlo già ospitato più volte nelle sue trasmissioni – è Fabio Fazio che sceglie il suo pezzo d’autore, composto con il producer Dardust, rilanciandolo. «È un mantice il cielo, è una strana officina, è Dio che si dimentica di fare tutto il suo lavoro», canta a piena voce e si classifica al settimo posto. Contestualmente, vede la luce una riedizione dell’album “Come in cielo così in guerra”, edito l’anno prima. Nei brani si mette a nudo senza pudore, dando sfogo al desiderio di un’infanzia risolto in un bicchiere tra le mani (da “Il mio esser buono”). «Questi ultimi anni mi hanno fatto capire che quel solito inutile usarsi lascia un vuoto nel cuore», ammette in “Ingenuo e romantico” e non teme di risultare retorico perché l’amore è più forte ed immenso di ogni dolore.

Ma la canzone più importante è certamente “Invisibili”, un flusso di coscienza schietto e diretto  premiato come miglior testo all’ultimo Sanremo diretto da Fazio che racconta le esperienze vissute da Cristiano in prima persona durante la sua giovinezza. Racconta della sua Genova e dell’Italia di quel periodo in cui i giovani si sono messi in moto per sovvertire la cappa clerico-fascista-democristiana che dominava il Paese. Racconta l’entusiasmo dei ragazzi come lui che sognavano la rivoluzione, prima di laurearsi in danni irreversibili che la droga provoca al cervello. Racconta di sé, del suo talento nello svuotare le cantine, del suo cognome inesorabile come l’incudine. Racconta delle volte che si è trovato con le tasche vuote, il cuore a pezzi e niente più come canta in “Senza famiglia” dall’album “L’albero della cuccagna” del ’90 in cui già si riferisce agli anni sbandati, ai letti sfatti negli alberghi, al mucchio di bugie dette, alle “Cattive compagnie”.

In quella canzone, apprezzata per le sue parole, parla degli anni in cui ci si sentiva “Invincibili” giù lungo il porto, dentro quei bar. Dei sogni cambiati in spiccioli, dell’alcol, del fumo, della sua città che in “Le notti di Genova” descrive come una ragazza bruna che colleziona stupore e noia, una ragazza silenziosa dagli occhi duri. E tutto questo lo fa anche in lingua genovese, lui che il dialetto – fino a quel momento – lo aveva utilizzato solamente una volta, nella motivazionale “Sempre anà”, scritta e composta con Mauro Pagani. Un brano speciale che narra perfettamente la filosofia dei liguri e che fa parte di uno dei suoi album più apprezzati dalla critica, “Scaramante” del 2001, primo album pubblicato dopo la morte del padre avvenuta nel gennaio del ‘99.

È vero, la morte esiste, ma è solo un piccolo destino. Lo canta nella toccante “Il silenzio e la luce” che crea in coppia con Oliviero Malaspina, presente anche in altri prezzi come “Buona speranza”. Lo stesso Malaspina cura anche l’album live “Un giorno nuovo” del 2003. «Ci sarò e proverò ad esser vivo e più forte che mai, ci sarò e proverò ad esser fuoco e a non bruciarti mai», promette nella title track del disco che porta in gara al Festival su quello stesso palco in cui lo abbiamo visto ricordare suo padre pochi mesi fa in coppia con Bresh sulle note di “Creuza de mä”.

In fondo, pensandoci bene, Cristiano è riuscito a trasformare il reverenziale timore di rimanere nell’ombra di Faber in una virtù perché è a lui che deve il suo essere artista. Tutti i tour in cui riprende le canzoni del padre e gli album in cui “De André canta De André”, servono a rivendicare un concetto fondamentale. Chinarci a raccogliere le ceneri del glorioso passato non deve rappresentare una vergogna. Di quelle ceneri dobbiamo cospargerci, assimilarle il più possibile. Esaltare le nostre radici prima che ci uccidano perché possiamo chiudere gli occhi, ma è vietato morire. 

Scritto da Francesco Costa
Parliamo di: ,