“Dalla A alla Z”: G come Giorgio Gaber

Dalla A alla Z - Giorgio Gaber

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla G di Giorgio Gaber. A cura di Francesco Costa

La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla lettera G, G come Giorgio Gaber.

Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.

“Dalla A alla Z”: G come Giorgio Gaber

Quante volte, guardando la televisione, sentiamo rivolgere ai performer gli stessi complimenti triti e ritriti: “Sei un animale da palcoscenico”, “Si sente che hai l’esigenza di cantare”. Quando uno è proprio bravo, si arriva addirittura a definirlo un genio. Termine che troppo spesso viene utilizzato a sproposito, ma non nel suo caso. 

L’artista di oggi è un uomo che vuole essere libero, libero come un uomo. La sua è una di quelle menti che non si possono intrappolare in una scatola cranica, il suo cuore non lo si può assolutamente ingabbiare in un torace. Impossibile, troverebbero comunque il modo di fuggire via; oltre al logorio della vita moderna, oltre alle definizioni che la società impone di attribuirsi. Oltre alle distinzioni tra follia e normalità, destra e sinistra. Oltre persino alla morte, sono troppo brillanti le sue idee perché possano ridursi in cenere. Superiore a tutti senza mai essere snob, il suo nome inizia con la lettera G. G come Giorgio Gaber.

Un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Di questo monito, che cantava in un brano del ’72, Gaber ne ha fatto uno stile di vita. Sempre in prima linea per le battaglie in cui credeva, si è mangiato le sue idee perché soltanto così, sentendole sotto la pelle e non solo nella mente, si può fare la rivoluzione. E lui la rivoluzione l’ha fatta veramente. Il suo impegno politico è noto, ma contrariamente a chi si ostina a dare un nome a tutto, non era un comunista. I comunisti non lo tolleravano e i fascisti lo odiavano, come si fa a non amarlo? “Papà era un uomo di sinistra ma non della sinistra”, lo ha messo in chiaro la figlia Dalia in una recente intervista. Era un battitore libero, lontano da qualsiasi logica di partito. Distante anni luce da schemi e preconcetti, assecondava ogni sua sfaccettatura, da quella polemica a quella dolce. Ed è la sua vena romantica a dargli il primo vero successo. 

È il 1960 quando esce “Non arrossire”. Un uomo parla a una donna e le raccomanda di non sentirsi in imbarazzo perché il suo sentimento è sincero. La classica storia d’amore che piace alla gente e infatti vende più delle altre, trainando un album che si chiama proprio come lui, Giorgio Gaber. Un ragazzo poco più che ventenne che ancora cerca la sua strada. Da qualche anno, ha un contratto con la Ricordi, la casa discografica che prova a lanciarlo con nomi assurdi tipo Jimmy Nuvola o Joe Cavallo.

Lo vogliono rendere l’ennesimo italiano che scopiazza le mode americane. Ma è evidente, fin dai suoi esordi, che non è uno qualsiasi. La sua abilità nell’anticipare i tempi lo porta nel ’58 a scrivere il primo rock ’n’ roll italiano, “Ciao ti dirò”, che presenta in tv al Musichiere. Non Celentano, che la inciderà poi a sua volta, non Little Tony e nemmeno Bobby Solo. È lui il precursore di un genere che arriva da oltreoceano con un pezzo scritto insieme a un altro mito conosciuto per tutt’altro tipo di canzoni, Tenco. Quello tra i due è un sodalizio che inizia proprio in quegli anni e che li vede uniti nella band Rocky Mountains Ol’ Times Stompers: Giorgio canta, Luigi suona il sax e al pianoforte Enzo Jannacci. Una squadra di futuri fenomeni, non male per un giovane che si affaccia al mondo dello spettacolo. Sono anni brulicanti per lui, anni in cui diventa una stella del piccolo schermo e partecipa per quattro volte al Festival di Sanremo.

Tra tutte le canzoni incise in questa fase, ce n’è una del ’63 che si inserisce di diritto nel filone del romanticismo. Questa volta, però, l’amore lo canta per la sua Milano in “Porta Romana”. La Milano di un tempo, quella dei cortili larghi che fa dà sfondo ai ricordi di una storia passata. Rimpiange quel cinemino in cui andava con la sua lei che ora si è trasferita in un quartiere nuovo. Gli manca la Milano in cui è cresciuto e con cui ha instaurato da subito un rapporto viscerale. Quella città in cui è nato con un cognome istriano, Gaberscik, che significa betulla. Ma prima di diventare un albero resistente, all’età di nove anni, ha dovuto affrontare una brutta poliomielite che lo ha colpito due volte, provocandogli una leggera paralisi della mano sinistra.

A volte si sa, non tutti i mali vengono per nuocere perché proprio a causa della malattia, in assenza di una fisioterapia vera e propria, gli hanno messo tra le braccia una chitarra. Suonava per non perdere l’uso della mano, ora suona per non perdere l’uso della ragione e canta perché ha qualcosa da dire. Lo fa un po’ dappertutto, nelle balere e nelle osterie di una città che cresce a dismisura e si fa teatro di incontri prolifici. Nei bar del capoluogo lombardo, in quegli anni, si confrontavano artisti di tutti i tipi: poeti, scienziati e anche pittori come il toscano Sandro Luporini con cui si imbatte per caso il nostro eroe. I due si piacciono parecchio e dopo anni di amicizia consolidata, uniscono le loro menti e i loro cuori anche artisticamente.

Insieme creeranno tutte le canzoni del Gaber impegnato, compresa la più amata, “La libertà”. Senza Milano, Gaber non sarebbe stato Gaber. La stessa cosa succede al suo nemico amatissimo, una vecchia conoscenza che lo aveva accolto agli inizi della carriera nella sua band. Quell’amico che condivideva la sua passione per il rock e con cui si ritrova, alla fine dei favolosi anni sessanta, a combattere la cosiddetta guerra delle ballate. Il Molleggiato.

Se già con “Porta Romana” sembrava anticipare i temi de “Il ragazzo della via Gluck”, con “Com’è bella la città” del ’69, Gaber fa proprio il verso a quel brano ben più noto. Adriano cantava la perdita della campagna, Giorgio l’inevitabile immersione nella frenetica vita urbana. Ma checché ne dicano i rotocalchi, i due la vedono allo stesso identico modo. Quella che sembra un’ode alla città moderna, piena di strade enormi e di negozi scintillanti, si rivela essere il nefasto racconto di una realtà sempre più distruttiva. Una realtà talmente veloce da annichilire. Fa capolino in questo momento, nei suoi testi e nelle sue esibizione via via più attoriali, un tema che galvanizzerà la sua produzione artistica, l’alienazione. C’è troppa sofferenza nella nuova società, ci sono troppe ingiustizie che incupiscono. Con la guerra delle ballate si conclude un’altra fase e ha inizio quella più importante di tutte, il teatro canzone.

“Oggi sono convinto che bisogna orientarsi verso un altro tipo di canzone, accettare un filone nuovo. Per sopravvivere e conservarsi un pubblico, bisognerà rendere visive le proprie canzoni, non solo cantandole, ma creando nella canzone lo spettacolo”. È così che, sulla scia dei cantautori francesi alla Jacques Brel, Gaber abbandona la televisione con le sue censure per sposare il teatro con le sue performance dal vivo. Galeotta fu una tournée della grande Mina che lo sceglie per aprire tutti i suoi concerti. Un arduo compito che diventa per lui una palestra. Non è facile intrattenere un pubblico che aspetta solo di vedere la Tigre di Cremona, ma è proprio dalla difficoltà che si rialza e costruisce, sera dopo sera, una relazione artistica prioritaria e unica con gli spettatori. Fino a decidere, con l’incoraggiamento del sovrintendente del Piccolo Teatro Paolo Grassi, di cambiare tutto. Si spengono le luci della tv e si accendono quelle dei teatri che riempirà con numeri record cantando, ma soprattutto raccontando e dialogando.

I tempi sono maturi e in un teatro di provincia, nell’autunno del ’70, nasce il Signor G. Ma cos’è il Signor G? Una canzone, uno spettacolo, il suo alter ego. È l’uomo moderno, confuso e perennemente in lotta tra la voglia di cambiare e la società tremendamente deludente. È la gente che ha smesso di credere, in Dio e nella politica che critica accusandola di corruzione e bigottismo. La sua sincerità è l’unica risposta plausibile al periodo storico turbolento che sta per cominciare. Sul palco una semplice sedia, qualche luce e le persone che corrono nei teatri per farsi incantare dalla schiettezza del Signor G, dalle sue parole e dai suoi gesti, dalle sue cantate e dai suoi monologhi. 

In questa svolta impegnata, Gaber sceglie con coraggio di stare dalla parte degli ultimi. Come tutti gli intellettuali del suo tempo, legge “L’io diviso” di Ronald Laing e aderisce al movimento dell’antipsichiatria che ha portato poi alla chiusura dei manicomi nel ‘78. Se già negli anni sessanta, in “Goganga” e “Il Tic”, affrontava il tema della dissociazione mentale, ora lo fa con molta più profondità e lucidità. Si chiede se quelli che i benpensanti definiscono matti, i malati reclusi in strutture ben nascoste, fossero realmente così diversi da chi si considera sano.

È di questo che parla in “Dall’altra parte del cancello”, quattro anni prima della legge Basaglia. E sul finale della canzone non si capisce più chi siano i pazzi, se quelli che stanno in quei luoghi angusti o chi sta dall’altra parte delle alte inferiate. La sanità mentale e l’interezza diventano poi il centro dello spettacolo “Far finta di essere sani” del 1973. Non c’è più integrità, sono troppe le contraddizioni nel mondo perché si possa rimanere intatti. Tutto è diviso e anche noi ci siamo divisi, metaforicamente e letteralmente, una delle canzoni della pièce si chiama infatti “L’uomo che perde i pezzi”. C’è un elastico che tiene unita la mente al corpo ed è sempre più teso, fino a spezzarsi. Non si può più tornare indietro, la follia è un incubo dal quale non ci si risveglia. A forza di stare appresso a tutti questi maledettissimi impegni, a tutti questi problemi, ci stiamo dimenticando che siamo umani. Come in un film horror alla “The Substance”, stiamo diventando dei mostri. Abbiamo scordato quali sono i valori e di questo, Gaber ne parlava ancora cinquant’anni fa. 

Se pensate che questa visione sia eccessivamente catastrofista, non vi piacerà sapere che la disillusione del Signor G è destinata ad aumentare ancora di più quando crolla definitivamente il mito del comunismo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Il sogno si è rattrappito e non basta più guardare Rai 3 o ascoltare gli Intillimani per sentirsi parte di un gruppo festoso e tinto di rosso che vuole migliorare le cose. Qualcuno era comunista, ma ora non lo è più e non sa più distinguere destra e sinistra. Nell’omonima canzone, Gaber smonta questo dualismo così violento e riporta tutto alle cose che riguardano la gente, riporta tutto alla libertà. 

Un giorno un tale francese disse di essere disposto a morire per difendere il diritto dell’altro di esprimere quello che pensa, anche se non è d’accordo. Una regola vitale che sposa pure Gaber, basti pensare che la moglie votava per Berlusconi. Essere liberi non significa ascoltare solo chi la pensa come noi. Essere liberi non significa nemmeno vivere da anarchici senza regole o da eremiti senza compagnia. Essere liberi significa sentirsi parte di un gruppo. Vuol dire condivisione, democrazia. Questo è il senso della libertà che come ci insegna quel genio di Giorgio Gaber non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone. La libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione.

Scritto da Francesco Costa
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