“Dalla A alla Z”: U come Ultimo

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla U come Ultimo. A cura di Francesco Costa
La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla lettera U, U come Ultimo.
Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.
“Dalla A alla Z”: U come Ultimo
Periferia è dove Giusy guarda la partita senza giocarla mai, dove vola e si ribella ogni rondine al guinzaglio, dove vivere è un terno alla lotteria. Una lotteria a cui l’artista della puntata di oggi ha trionfato, non per fortuna, ma grazie al suo spiccato talento nel captare le emozioni della gente che spinge, da quattro anni a questa parte, una folla oceanica a riempire gli stadi di tutta Italia.
Ai suoi concerti ci si stringe forte, si salta, si piange e soprattutto si grida in faccia a ‘sto mondo «Tu non sai cosa c’ho dentro». Non sono più stadi, ma gigantesche stanze all’aperto per liberatorie sedute terapeutiche di gruppo.
E lui è il paziente zero che, fin da quando è bambino, ha un solo obiettivo: dalla parte degli ultimi per sentirsi primo. Il suo nome inizia con la U, U come Ultimo.
Se mi concentro lo posso ancora fiutare, il pervicace odore di sudore adolescenziale misto a deodorante post ora di ginnastica che si sprigionava nella classe quella mattina. Avevo 15 anni ma la ricordo come se fosse ieri, la prima volta che ho sentito una sua canzone. Giorgia, la mia compagna di banco, mi ha raccontato di questa sua fissa per un giovane cantante emergente che stava iniziando a racimolare parecchie visualizzazioni con i suoi tre pezzi usciti nell’arco di pochi mesi. Dalle foto, lo trovavo un tipetto un po’ coatto come tanti e la stessa sensazione l’ho avuta quando ha estratto il cellulare, mi ha messo una delle sue cuffiette nell’orecchio e ha schiacciato il tasto play.
Mentre ascoltavo distrattamente “Chiave”, il primissimo inedito di Ultimo pubblicato nel marzo 2017, pensavo: «Ci risiamo, un altro pseudo rapper che si improvvisa cantante» e sentivo su di me il suo sguardo. Mi guardava con gli stessi occhi di Claudio Cecchetto quando ha scoperto gli 883, io la prendevo in giro ma lei ci avrebbe messo la mano sul fuoco: presto lo avrebbero scoperto tutti e lei si sarebbe arrogata il baudiano diritto di averlo inventato.
Non ero molto convinto eppure continuavo a canticchiare il ritornello di quella canzone e nel giro di pochi giorni ho ascoltato anche “Ovunque tu sia”, “Sabbia” e soprattutto “Pianeti”, una ballad travolgente che mi ha insegnato a credere nella fantasia che trasforma in pianeti i sassi, la title track del suo album di debutto che in quell’autunno ho consumato.
Ma il cuore di Ultimo, oltre che la ragione principale del suo successo, lo troviamo in “Sogni appesi” e risiede tutto in un concetto molto semplice: soltanto se stai dalla parte dei più deboli, puoi realizzarti e vincere. Un monito morale significativo, una retorica che gli ha portato tanta fortuna.
Poi è arrivato Sanremo Giovani e come pronosticato dalla mia lungimirante amica con un futuro da talent scout, il grande salto. Con “Il ballo delle incertezze”, un inno alle fragilità arricchito da un toccante video contro il bullismo, vince la gara nel 2018 e inizia la favola. Sempre più fan, ragazzini e non, scelgono di volare con lui. Non per altro, il secondo disco, che ha venduto più di 300mila copie, si chiama “Peter Pan” e il terzo, edito nel 2019 dopo il secondo posto tra i big del Festival con “I tuoi particolari”, “Colpa delle favole”.
Sono anni di brulicante e incessante fervore artistico, anni in cui Nicolò non si ferma un attimo. È cambiata la suonata da quando tirava a campare nella borgata di San Basilio, a Roma, in cui è cresciuto, la stessa che ha dato i natali all’amico Fabrizio Moro con cui duetta in “L’eternità (il mio quartiere)”. Tuttavia, come spesso capita in questi casi, lui ha lasciato la periferia ma la periferia non ha lasciato lui. Quella fame di vita, quella voglia di mandare a quel paese chi non lo capisce come i professori che lo prendevano di mira per le sue bravate da incosciente giovane, quella spiccata e ambivalente sete di amore e riscatto gli rimangono impresse nei meandri più reconditi della memoria, si incollano alle sue corde vocali e si traducono in canzoni.
E anche se ora vive oltreoceano, non scorda mai da dove viene. In “Fateme cantà” omaggia la sua città a cui dona nove panchine da posizionare nel parchetto sotto casa sua, il simbolo di una vocazione artistica nata dalla strada, l’input a sforzarsi per raggiungere le stelle dalle stalle. È in nome di una viscerale esigenza di cantare che le tenta tutte, ma in ogni talent trova le porte chiuse. La ruota comincia a girare quando porta i suoi brani a una gara di musica rap e vince un contratto con l’etichetta Honiro di cui diventa presto il manifesto.
Forse nasce proprio da questo la mia immagine iniziale di lui come rapper, ma è chiaro che il suo cammino lo traghetta subito “Altrove” (titolo del suo disco più recente uscito nel 2024), verso un pop cantautorale di ballatone romantiche da abbinare alle foto di coppia nelle storie di Instagram come “Tutto questo sei tu” o “La stella più fragile dell’universo”, power ballad arrabbiate come “Niente” e “Ti dedico il silenzio” e hit da ballare come “Vieni nel mio cuore” o la title track dell’ultimo album che dedica alla compagna Jacqueline con cui pochi mesi fa ha avuto Enea, il suo amato bimbo.
L’amore, i pezzi lenti, le dediche sentimentali. Uno scenario che sembra evocare l’antico stereotipo secondo cui esiste una musica per le donne e una per gli uomini. È come se, nel gigantesco frigorifero del patriarcato, ci fosse uno scompartimento per la trap o per il rock (che ascoltano i veri duri) e uno per il pop (destinato invece alle “femminucce”). Un pregiudizio figlio del machismo che ancora persiste, ma che può essere spazzato via con un semplice soffio.
Ce lo dimostra questo tipetto classe 1996 che, da quattro anni consecutivi, colleziona un sold out dietro l’altro con i suoi tour negli stadi. Un successo senza precedenti, la prova di un concetto statisticamente evidente a prescindere dalla mera biologia: siamo un popolo di romanticoni. Mi è capitato infatti di vedere filmati dei suoi concerti in cui si vedono numerosi fan, ragazzoni etero basici che magari erano già stati all’Olimpico a vedersi la Magica poche settimane prima, piangere urlando a squarciagola il ritornello e il bridge di “22 settembre” per poi abbracciarsi senza il benché minimo sintomo di imbarazzo, uniti dall’amore per Ultimo, un idolo e uno di loro al tempo stesso perché è riuscito, e bisogna prenderne atto a prescindere dai gusti, a dare voce agli ultimi che hanno forza e insieme cantano.
Ultras e ragazzine, bambini e nonni. Non più musica, ma un affresco che ritrae perfettamente la nostra società. Non più concerti, ma variegati pot pourri di persone così diverse tra di loro e per questo bellissime. E allora non servono più a nulla le discussioni, i battibecchi con i giornalisti. Basta questo per mettere a tacere qualsiasi polemica e vedendolo cantare “Piccola stella” con Ed Sheeran al suo show di qualche giorno fa mi sono ritrovato a pensare a quando ero poco più di un bambino. Al liceo, alla mia compagna di banco che non sento da una vita e che ci aveva visto lungo. Avevi ragione Giorgia e sappi che per quello che conta, almeno per me, Ultimo l’hai inventato tu.