“Dalla A alla Z”, V come Vasco Rossi

Vasco Rossi

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla V come Vasco Rossi. A cura di Francesco Costa

La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla V come Vasco Rossi.

Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.

“Dalla A alla Z”, V come Vasco Rossi

Ha guardato dentro un’emozione e ci ha visto dentro tanto amore, così tanto amore che ha capito perché non si comanda al cuore. Lui che è il Komandante di una nave con milioni di marinai a bordo, tutti in cerca di trovare un senso a questa storia. L’artista della puntata di oggi vuole una vita maleducata, una vita come Steve McQueen, ma al cuore non comanda perché alla fine siamo tutte anime fragili. Cerchiamo soltanto le avventure perché non vogliamo più piangere, ma anche piangere è vivere. E vivere è la sua parola d’ordine. Vivere per amare, per sognare, per rischiare. Vivere senza rimpianto. Il suo nome inizia con la lettera V, V come Vasco Rossi.

Un poeta contemporaneo che da quasi cinquant’anni racconta gli italiani. Un miracolato che con tutte le sostanze di cui si è drogato doveva morire ancora negli Ottanta eppure, per qualche strano e inspiegabile motivo, ce l’ha fatta. «Sembrava la fine del mondo ma sono ancora qua», canta in “Eh già”. Un cantore rock che unisce tre o quattro generazioni in un corpo solo. Di Vasco si dice tutto. A casa mia si dice che, invecchiando, assomiglia sempre di più a mio nonno. Di Vasco si dice proprio tutto, ma perché Vasco è tutto. È quel mito che aleggia nell’aria, troppo imponente per essere reale. È così che l’abbiamo sempre vissuto a casa mia ed è con la sua voce che sono cresciuto. C’è una scena che, se mi concentro, riesco a ricordare nitidamente. Mi vedo sul sedile in pelle della Volvo XC90 a quattro o cinque anni. Alla guida c’è mia mamma che mette il cd verde della raccolta “Tracks” del 2002, anno in cui sono nato, nel lettore e si perde sulle note delle canzoni più belle del suo cantante preferito. Nei suoi occhi un cabaret di vivide emozioni mentre maciniamo chilometri fino ad arrivare alla nona traccia e il sentimento che si impadronisce di lei è la nostalgia, la saudade di chi ricorda i vent’anni quando era tutta un’altra cosa. 

«Liberi liberi siamo noi però liberi da che cosa chissà cos’è», canta mamma e mi commuovo ancora oggi mentre la ascoltiamo insieme, oggi che quelle parole – “Liberi liberi”, titolo sia della canzone che dell’album dell’89 – ce le ha tatuate sul braccio. Questo di Vasco è certamente uno dei lavori più introspettivi in cui se la prende con la sfortuna, maledetta nella ballata rock “Dillo alla luna”. Oltre che introspettivo, è anche il primo disco che crea senza il suo produttore storico Guido Elmetti, senza la Steve Rodgers Band. Con lui c’è solo il manager Maurizio Lolli che scompare giovanissimo pochi anni dopo per un tumore ai polmoni. È a lui che Vasco dedica uno dei suoi pezzi più profondi in assoluto, “Gli angeli” («Vivi in bilico e fumi le tue Lucky Strike e ti rendi conto di quanto le maledirai»), estratto nel 1996 dall’album “Nessun pericolo… per te”.

In quel disco c’è uno dei suoi pezzi più famosi, un pezzo storico con protagonista una donna che non ha più voglia di fare la guerra e dopo aver camminato a lungo – con aria indifferente e senza pensare a niente – arriva alla conclusione che ci si deve sentire un po’ male per trovare un senso al proprio vagare e capire che la vita non è stata tutta persa, “Sally”. È meglio vivere la realtà perché domani sarà tardi per rimpiangerla, come canta in “Gabri” del ’93, dall’album estremamente rock “Gli spari sopra”.

In quel disco ci sono due dei brani che preferisco di Vasco, l’evocatica e liberatoria “…Stupendo” e“Vivere” che ascolto quando avverto palpitante il fondamentale bisogno di pensare che domani sarà sempre meglio. Domani che non vede “Toffee”, una delle tante donne che popolano le canzoni del Komandante come “Susanna”, dall’album “Colpa d’Alfredo” del 1980 che contiene pezzi immortali come “Non l’hai mica capito” e la toccante “Anima fragile”. Nel pezzo si racconta l’amore che dura una notte, diametralmente opposto dall’amore che racconta il Vasco della maturità. «Io e te a crescere bambini, avere dei vicini», canta nella romantica “Come nelle favole” – a mio avviso uno dei testi scritti meglio degli ultimi anni da cui prendere spunto – unico singolo, insieme a “Un mondo migliore”, nella raccolta “VascoNonStop” del 2017.

Nello stesso anno, il record di “Vasco Modena Park”. Ma si sa, con l’età molte cose cambiano, molte cose succedono in città. La sua storia con Toffee rientra in un disco che si chiama proprio “Cosa succede in città”. Tra le tracce, anche la splatter “Ti taglio la gola” che rientra in un filone di canzoni volontariamente provocatorie, caratterizzate da immagini forti come la grezza “Ieri ho sgozzato mio figlio” che racconta l’emarginazione vissuta dal Blasco durante l’infanzia e la nota “Fegato spappolato” che parla dei postumi di una sbornia. 

Oltre a quel pezzo dal titolo così thriller, tra i brani del disco trova spazio anche un altro grande successo, “T’immagini”, un pezzo pop rock in cui si lascia andare alle fantasie che volano libere e che a volte fanno ridere. Quelle fantasie che se soffi piano vengono da sole come le “Bolle di sapone”, ben diverse da quelle incendiarie “Bollicine” che nell’83 danno una notevole spinta alla sua carriera e gli fanno vincere il Festivalbar con la sua critica feroce alla società dei consumi in cui una marchio famoso come la Coca Cola diventa sinonimo della dipendenza da un altro tipo di coca che non è proprio il caso di portare a scuola.

Quell’anno è lo stesso in cui partecipa al Festival di Sanremo e viene bistrattato come se tra le mani non avesse uno dei capolavori più amati della musica italiana, un mantra che celebra un’idea di vita vera vissuta tra whisky bevuti al Roxy bar e ore perse a rincorrere guai ognuno col suo viaggio, ognuno diverso: “Vita spericolata”. Trascurata in riviera ligure – anche se tutti se lo ricordano mentre abbandona il palco prima della fine della canzone svelando platealmente il playback – e osannata negli anni a venire. Stesso destino che tocca al debutto sanremese dell’anno prima quando partecipa alla kermesse con “Vado al massimo”, hit dal retrogusto reggae sintomatica del modo vaschiano di vivere la vita in cui risponde anche a «quel tale che scrive sul giornale» (il giornalista Nantas Salvalaggio) che lo aveva definito ebete, cattivo e drogato dopo averlo visto esibirsi a Domenica In con “Sensazioni forti”. Quello con la droga per Vasco è un rapporto bellicoso di cui non ha mai fatto mistero, le droghe sono state la sua armatura per affrontare il tormento di una vita d’artista sempre più frenetica. 

A partire da quello che viene considerato un vero e proprio inno generazionale. È il 1981 quando tutti cantano il rock potente e liberatorio di “Siamo solo noi”, titolo scelto anche per l’album che contiene il singolo “Brava”, termine ripreso sei anni dopo nella più conosciuta “Brava Giulia”. Brava perché vive la vita che vuole come lui. Una vita che diventa meno difficile se hai una persona complice a cui magari dedicare le canzoni. «Le canzoni son come i fiori, nascon da sole e son come i sogni e a noi non resta che scriverle», canta in “Una canzone per te” in cui ci rende partecipi dell’incontro avvenuto dopo anni e anni con quella ragazzina che vedeva scendere dall’autobus e che immaginava respirare piano per non far rumore.

Quella ragazzina, ora cresciuta, a cui piace studiare e non se ne deve vergognare, che diventa rossa se qualcuno la guarda e non mette mai niente che possa attirare attenzioni. Chiara come un’alba, in una parola sola “Albachiara”, il suo pezzo più importante con cui chiude tutti i concerti che ogni anno riempiono gli stadi, estratto dall’album “Non siamo mica gli americani!” del ’79. Ancora una volta il titolo richiama una donna e la memoria torna a “Jenny” e a “Silvia”, si chiamano così i suoi primissimi brani pubblicati nel 1977 dopo una lunga gavetta nel mondo della radio. La sua infanzia scorre serena a Zocca, ma già da quando è ragazzino si avverte una certa avversione nei confronti delle regole. Quel rifiuto degli schemi che lo porta a far ricredere tutti quelli che gli dicevano “…Ma cosa vuoi che sia una canzone…”, nome del suo primo album, compreso il padre che sognava per lui un impiego più stabile. 

«È nell’aria ancora il tuo profumo dolce, caldo, morbido come questa sera mentre tu, mentre tu, non ci sei più», canta Vasco omaggiando il papà in “Canzone” che non è certo “Una canzone d’amore buttata via”. Si chiama così la ballad pop rock che nel 2021 anticipa l’ultimo album “Siamo qui” (l’ultimo inedito pubblicato è “Gli sbagli che fai” del 2023). Al suo interno troviamo addirittura – in “La pioggia alla domenica” – un duetto con Marracash, unico artista a cui ha concesso un featuring, dimostrando abile capacità di stare al passo con i tempi senza snaturarsi. Siamo qui e “Siamo soli” verrebbe a volte da dire come nel brano dal disco “Stupido hotel” del 2001, brano che parla di un amore volto al termine. Amore, amore che a volte non è per niente amore, ma è solo dormire nello stesso letto come in “La nostra relazione”.

Amore che a volte lascia il solco e ti fa dire “Io no…” non ti dimenticherò, dall’album “Canzoni per me” del ’98 che contiene al suo interno anche la hit “Rewind”. Amore che ti fa dire “Stammi vicino”, singolo estratto dall’album “Vivere o niente” del 2011 in cui rimette al centro quella parola così centrale per lui: vivere. «Io non voglio più vivere solo per fare compagnia», grida nel ritornello di “Quante volte” in cui si chiede quante volte sono arrivati i “Guai” (canzone presente in “Sono innocente” del 2014) e arriva alla consapevolezza di essere migliorato “Ogni volta”.

Ogni volta che non è stato coerente, ogni notte persa a cercare “Un senso” – brano manifesto del disco “Buoni o cattivi” del 2004 – lo ha portato a comprendere che vogliamo sempre trovare un senso a tante cose anche se tante cose un senso non ce l’ha. E allora tanto vale guardare dentro alle emozioni, accettare che al cuore non si comanda e lasciarsi pervadere dal sentimento come mi ha insegnato mia mamma quel giorno di tanti anni fa quando ero solo un bambino. Un bambino che anche grazie a Vasco avrebbe imparato la lezione più importante di tutte. In qualunque direzione ti porti la vita, non temere, «vedrai che imparerai dagli errori che fai, tu imparerai dagli sbagli che fai».

Scritto da Francesco Costa
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