A tu per tu con il musicista veneto, in uscita sulle piattaforme digitali con l’EP intitolato “Lullabies”
Ne è passata di musica tra le dita di Davide Ferrario, artista a 360 gradi e producer poliedrico che, nel corso dei suoi quindici anni di attività, ha collaborato con protagonisti della musica leggera italiana diversi tra loro: da Franco Battiato a Max Pezzali, passando per Gianna Nannini, Piero Pelù, Marco Mengoni, Milva, Noemi, Patty Pravo, Fred De Palma e molti altri ancora. Dopo aver partecipato a Sanremo 2007 con la band degli FSC e suonato sui palchi di mezza Italia, torna sul mercato con l’EP “Lullabies” (Manjumasi), caratterizzato da influenze elettroniche, al di là delle mode o delle tendenze del momento.
Ciao Davide, una vita passata ad accompagnare altri artisti sul palco e con il tuo gruppo, cosa ti ha spinto ad uscire con un nuovo progetto da solista?
«Dopo un po’ di tempo in cui ero fermo ho ritrovato la voglia e lo spirito di fare cose mie, il tutto con grande entusiasmo, sto giocando e realizzando delle cose che non hanno nessuna mira se non quella di divertirmi e dedicarmi a ciò che mi piace fare».
In un mercato dove la trap e l’indie la fanno da padrone, dove pure il pop a stento arranca, cosa ti ha spinto verso l’house?
«Semplicemente l’idea di divertirmi, nella vita non ho mai fatto nemmeno per sbaglio qualcosa che potesse andare di moda (sorride, ndr), sono sempre arrivato prima o dopo. Realizzare un disco strumentale, anche in termini radiofonici, può apparire come una controtendenza, ma sono perfettamente consapevole che si tratti di un prodotto di estrema nicchia, ma una nicchia che esiste e che va in qualche modo rappresentata. È chiaro che non si diventerà milionari, ma se fosse stata questa la mia mira non avrei fatto questo mestiere.».
“Istinto”, “Credibilità” e “Sperimentazione”, mi metti in ondine di importanza questi tre termini?
«Credibilità assolutamente per ultimo, istinto per secondo e sperimentazione per prima».
In passato hai lavorato al fianco di numerosi e diversi artisti, quanto è stato importante per te toccare con mano visioni così differenti della musica?
«Tantissimo e per mille motivi, intanto perché ho imparato una professione, in precedenza non avevo mai studiato musica, mi reputo un autodidatta in tutto, oltre alla tecnica ho appreso tanto anche dal punto di vista umano, soprattutto negli artisti con una carriera avviata e molto ben riuscita a livello di popolarità. Tra tutti questi personaggi che hai elencato c’è un tratto comune è che quello di saper gestire l’aspetto emotivo, quello che arriva al pubblico è una bordata di energia e di emozioni, anche se alle spalle c’è comunque un controllo e questo credo sia l’aspetto più interessante, la caratteristica che ho captato da tutte queste bellissime esperienze. Di mio sono sempre stato un po’ schizofrenico, nel senso che ho ascoltato e suonato qualsiasi tipo di musica, perché mi è sempre piaciuta l’immagine di chi non resta ancorato alla propria zona di comfort».
Quali ascolti hanno accompagnato e influenzato il tuo percorso?
«Quando ero piccolo quello che ascoltava mio padre, quindi i vari Beatles, Pink Floyd e un po’ tutta la musica degli anni ’70, da grande mi ha molto influenzato tutto il periodo del britpop, naturalmente gli Oasis, i Radiohead e l’ultimo decennio del precedente millennio. Da lì in poi tantissima elettronica, oggi ascolto prevalentemente quella, tonnellate di cassa in quattro e via andare».
Nel 2001 fondi gli FSC, esperienza che culmina e termina nel 2007 con la vostra partecipazione a Sanremo con il brano “Non piangere”. Cosa ricordi di quell’esperienza?
«Ricordo il Festival come un’esperienza divertente, un po’ nebulosa nella mia mente perché la considero appartenente ad un’altra vita, io stesso ero un’altra persona. E’ stata una bella occasione, anche perché durante quella partecipazione ho conosciuto colui che sarebbe diventato il mio socio dello studio, Francesco Ferrari ossia il cantante dei Grandi Animali Marini, solo questo incontro vale tutto perché abbiamo messo in piedi qualcosa di importante, non so dove ci porterà ma sicuramente da anni la nostra è una bella collaborazione».
Nel 2016 hai partecipato in veste di vocal coach a The Voice. Cosa pensi dei talent show?
«Non mi reputo uno spettatore dei talent, non riesco a trovare la minima emozione in quel tipo di format, sostanzialmente è una roba che non capisco, la competizione e quel modo di approcciarsi alla musica non mi appartiene, non per snobismo bensì semplicemente per attitudine. Detto questo, farete “The Voice è stato divertente, anche perché con Max mi trovo molto bene, in più avere a che fare con i ragazzi e con l’entourage della produzione è stato stimolante e proficuo. Semplicemente mi sono ritrovato a fare in uno studio televisivo quello che faccio per lavoro da tempo. Un’esperienza che tutto sommato rifarei».
Dopo aver parlato di te e del tuo mondo musicale, non posso non chiederti cosa pensi di quello che c’è intorno: come valuti l’attuale settore discografico?
«Mi sembra un momento di grande fermento, in cui hai la sensazione che ci sia uno spazio perché il periodo storico ti propone cose che sono molto assonanti, che tornano a generare nella testa dei ragazzi la voglia di provarci. Mi riferisco ad esempio al fenomeno indie, che ci ha permesso di tornare a scrivere pezzi semplici con la chitarra, questa cosa è molto bella, ultimamente francamente un po’ ci mancava, perché abbiamo sofferto un po’ l’epoca da catena di montaggio, vale a dire l’autore che scrive il pezzo per la cantante, che lo fa suonare a cinque turnisti, che viene prodotto dai soliti cinque nomi. Un meccanismo dal quale, forse, siamo parzialmente usciti, anche perché le cose che ne venivano fuori erano pressappoco tutte uguali».
Per concludere, qual è la lezione più grande che senti di aver appreso dalla musica?
«A non illudermi, perché quando inizi a frequentare questo mondo ti rendi conto delle dinamiche e delle reali possibilità che hai, perché sono diversi i fattori da tenere conto, dalla fortuna al proprio carattere, per cui ti ritrovi a ridimensionare un sacco le aspettative, almeno così la vivi meglio».
Nico Donvito
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