Intervista alla cantautrice alle prese con il nuovo tour
Da sempre artista istrionica e votata alla sperimentazione e alla ricerca reale e sincera Dolcenera è attualmente impegnata in un tour che la vede tornare protagonista dei teatri italiani con una consapevolezza nuova ma la voglia di sempre di comunicare e “spaccare” sul palcoscenico grazie al suo immenso talento compositivo, vocale ed artistico. Alla nostra prima intervista telefonica mentre è impegnata con il suo nuovo spettacolo si dimostra disponibile, attenta, curiosa a voler capire i punti di vista altrui ed esprimere con coerenza e chiarezza il suo. Non si fa problemi a rifiutare il ricorso impersonale alle mode, a classificare il concetto di album com “obsoleto” o a dire chiaramente “no” a Sanremo 2020 (salvo sorprese dell’ultimo momento). Ecco cosa ci ha raccontato in delle chiacchiere che potremmo tranquillamente definire (con il suo benestare entusiasta) ‘dolceriniane’:
Allora Manu, intanto come stai?
<<Sto bene, non c’è male. Anzi è un periodo proprio carico>>.
Ovviamente partiamo dal presente e dunque da questa tua nuova avventura dal vivo nei teatri con uno spettacolo denominato “Diversamente pop“. Da dove nasce l’idea e l’esigenza di tornare ad esibirsi nei teatri?
<<Torniamo alla tua prima domanda: sto bene, sono piena di energia e gran parte di questa mi sta arrivando proprio dai teatri. L’idea di fare degli spettacoli nei teatri è nata per avere l’intimità che lo spazio del teatro da sempre ma anche la verità che questo spettacolo mette di mettere in scena. Sembra quasi un controsenso “mettere in scena” la verità ma la mia idea per questi concerti è rompere i ruoli tradizionali dell’artista e del pubblico per far diventare il concerto una sinergia. Escludo di fare dei concerti con l’artista patinato che si nasconde dietro lo spettacolo. Il mio è un live improntato su di una lettura confidenziale.
Non mi piace la parte spettacolare di questo mio mestiere e per questo scelgo di provocare questo nuovo modo di vivere il concerto passando da momenti di danze ancestrali e tribali, che prendono vita attraverso l’utilizzo dei tamburi del sud del mondo (la chiave di scrittura delle ultime mie canzoni), a momenti più intimi. La gente passa dal ballare al piangere>>.
Correggimi se sbaglio ma mi sembra che in diverse occasioni tu ti sia da sempre dichiara una sostenitrice convinta di quella corrente, oggi probabilmente minoritaria per esigenze commerciali, di artisti che preferiscono la dimensione dello studio di registrazione a quella degli spettacoli dal vivo che, in qualche modo, obbligano gli artisti a seguire un copione prestabilito e non quella verità a cui facevi riferimento. Sei ancora di questo avviso?
<<La parte dello stare in studio di registrazione è un momento in cui qualche cosa di nuovo si crea per te stesso in primis: sono contenta io perchè, in quel momento, sono riuscita a donare, a me stessa in primis, una nuova canzone. Proprio per questo lo studio è un qualcosa che mi piace molto: mi dona la speranza del sogno. E’ un piacere un po’ egoistico, dico la verità. Ecco, perchè, se dovessi guardare solo al mio piacere preferirei avere a che fare sempre con nuove canzoni che alimentino il sogno.
La parte live per riuscire a progettarla con quel tipo di creatività e di non-ripetitività di cui parlavamo prima ci vogliono, probabilmente, i miei quasi vent’anni di carriera. Forse sono arrivata ad un momento, come donna non come artista, in cui sono finalmente riuscita ad avere quella maturità che permette di creare una scaletta che consente comunque la libertà dell’improvvisazione sincera. Questa cosa non riuscivo a farla prima, non so perchè…>>.
Questo discorso si ricollega, secondo te, anche alla proposta musicale? Generalmente oggi l’ascoltatore medio, non solo italiano sia chiaro, si trova ad ascoltare e consumare massicciamente. Non pensi che si assomigli tutto un po’ troppo e che ci sia bisogno, da parte degli artisti, di differenziare?
<<Lo sai che non sei l’unico che mi chiede questa cosa? E io mi chiedo: ‘perchè lo chiedono a me?’ (ride). Probabilmente il fatto di aver proposto ‘Amaremare’ quest’estate ha contribuito a dar di me l’immagine di chi si differenzia e, in effetti, quella canzone si distingueva dai tanti altri brani estivi perchè aveva un tema sociale e riusciva ad essere, in qualche modo, in competizione con l’easy-listening delle canzoni dell’estate. Unisci il fatto che, per esempio, il mio primo album s’intitolava ‘Sorriso nucleare’ e si arriva velocemente all’idea che, nella mia musica, rimanga forte un lato cantautorale in un periodo in cui il cantautorato sembra ricoprire minore popolarità rispetto all’approccio consumistico che si ha con la musica oggigiorno.
Nella musica c’è sempre stata una parte cantautorale, che esprime la visione sociale e politica del mondo, ed una che vi si contrappone perchè più commerciale. Il problema, oltre che la soluzione, sta sempre nell’equilibrio. Non che una sia migliore dell’altra, è chiaro. La musica è sempre specchio della società: se questa ha gli interessi economici sempre al primo posto allora la parte commerciale della musica supererà di gran lunga la parte più impegnata come sta avvenendo oggi. Io, però, credo nei ricorsi storici: i ragazzi che protestano per l’ambiente di cui racconto in ‘Amaremare’ sono gli stessi che, secondo me, cambieranno questa proporzione delle cose nella musica>>.
Ricordo che qualche estate fa ti lamentasti, nel senso buono del termine, di un abuso del reggaeton per le estati italiane. D’altrocanto tu sei da sempre un’artista che ricerca l’innovazione, che ama la sperimentazione e la contaminazione: qual è il lato positivo di questa tua condizione e quali credi che possa essere quello negativo?
<<Io non mi voglio mettere sempre in controtendenza, eh. Tranne nella scelta consapevole di non voler fare un pezzo reggaeton. C’è stato il momento in cui vedevo che la musica dance era l’unica che riusciva a darmi degli sprazzi di innovazione dal punto di vista musicale e mi piaceva un casino ciò che sentivo in giro per cui l’ho presa e l’ho fatta mia nel penultimo album. Quello che non mi piace è quando una cosa diventa troppo di moda e chiunque la usa: dagli undicenni ai sessantenni ex-rockstar. Il reggaeton, per dire, adesso sta cambiando e lo sta facendo in un senso che mi piace molto: prima era più “smelenzo”, adesso, invece, è “violento” altro che “smelenzo” (ride). Siamo passati ad una comunicazione più sanguigna e non più indirizzato a catturare momenti di non-pensiero.
Per rispondere alla tua domanda, penso che bisogna essere sempre onesti prendendo ciò che piace delle mode e lasciare, invece, ciò che non fa parte di se stessi. Non ha senso fare qualcosa solo perchè lo fanno tutti. Il mio problema è che, essendo io un’autrice, capisco quando quello che ascolto è un qualcosa di sentito o se è fatto a tavolino>>.
A proposito di scrittura, negli ultimi 18 mesi, hai proposto al tuo pubblico tre brani molto “dolceneriniani” se vogliamo ma anche molto diversi gli uni dagli altri: “Un altro giorno sulla terra“, “Più forte” e l’ultima “Amaremare“. Come stanno insieme questi tre universi dentro il tuo sentire musicale?
<<Che carino che è ‘dolceriniani’, mi piace tanto! Questi tre pezzi hanno una matrice comune sia nei testi che negli arrangiamenti. I testi guardano tutti alla condivisione di idee vicine alla natura umana per non dimenticare chi siamo, da dove veniamo e per ricordare che cosa ci rende uguali piuttosto che diversi. Tutti questi pezzi li ho scritti avendo davanti a me l’immagine di persone che ballavano attorno al fuoco e, proprio partendo da questo, si capisce qual è il punto di unione di queste canzoni>>.
Oltre a questi tre singoli qualche mese fa hai stupito tutti pubblicando a sorpresa su YouTube un brano come “Rosso Phard” che volutamente si concentrava sul riassaporare il mondo anni ’90 e le nuove tendenze indie-pop. Come t’è venuta quest’idea di riproporre con efficacia uno stilema di canzone pop all’italiana della quale in giro si capta una certa nostalgia?
<<Era un altro esperimento sociale dei miei come sono state anche le cover dei brani trap. Stavo nel gruppo Facebook di ‘Diesagiowave’ e ho scritto questo testo a mille mani con i modi di dire di questa community che ha un linguaggio nostalgico degli anni ’90 e che si può definire oggi ‘indie’. Tanti oggi riassaporano quegli schemi musicali ma personalmente li ho già vissuti quegli anni lì per cui basta, non mi attirano più>>.
Guardando al prossimo futuro non puoi non rispondere alla domanda che ti staranno facendo tutti. Essendo, poi, tu una persona schietta non avrai problemi a rispondere: ci sarai a Sanremo 2020? O meglio, vorresti esserci visto che, come si sa, non dipende sempre dall’artista il buon esito di certe dinamiche…
<<Non ho presentato alcun brano>>.
E non lo presenterai?
<<No. A meno che non succeda qualcosa all’ultimo momento>>.
Mentre, invece, per l’album… Dovremmo aspettare l’anno prossimo?
<<Allora, io penso che il concetto di album sia una cosa obsoleta: a questo punto posso dirlo chiaro e tondo. Io preferisco tirare fuori pezzi attuali un po’ quando mi pare come è successo con ‘Amaremare’ che ho scritto a giugno e pubblicato a luglio. Pure le case discografiche non vorrebbero più pubblicare gli album perchè hanno capito che è un qualcosa di superato. Poi, magari, in futuro le cose cambieranno per tornare al discorso dei soliti ricorsi storici>>.
Ilario Luisetto
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