giovedì 21 Novembre 2024

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Donatella Rettore: “La musica bisogna rispettarla, difenderla e non contraffarla” – INTERVISTA

A tu per tu con la nota cantautrice veneta, curiosità e aneddoti che ripercorrono la sua straordinaria carriera

Prepararsi psicologicamente e documentalmente ad un’intervista è pressoché fondamentale, soprattutto quando ti si offre la possibilità di interfacciarti con un personaggio del calibro di Donatella Rettore, cantautrice che non ha bisogno certo di presentazioni, con il suo bel bagaglio infinito di cose da raccontare. Ti si apre un mondo, allora cerchi di spremere le meningi per tirarle fuori il meglio, magari qualche aneddoto inedito, così metti in modalità offline il cellulare e per quattro-cinque ore ti dedichi con cura alla stesura delle domande. Peccato si sia trattato di tempo perso, perché con lei non esistono copioni o scalette. Dopo un paio di minuti di telefonata mi sono arreso, ho spento il computer e abbiamo cominciato a chiacchierare piacevolmente… scoprendo di avere a che fare, oltre che con una grande artista, anche e soprattutto con una persona speciale.

Ciao Donatella, benvenuta. Inaugurerei questa chiacchierata rompendo subito il ghiaccio, perché tu sei una persona genuina e schietta, questo a volte può suscitare delle etichette superficiali. Quindi, sfatiamo subito il mito che parli solo male dei colleghi…

«Ma in realtà io non parlo mai dei colleghi, siete voi giornalisti che mi chiedete di farlo, di mia spontanea volontà non lo faccio… preferisco di gran lunga concentrarmi sulle mie cose. Poi sai come funziona, no? Parli bene di dieci persone e male di una, alla fine il titolo sarà incentrato sull’unica dichiarazione che può fare un minimo di notizia…».

Appunto, quindi comincerei chiedendoti di farci qualche nome e qualche cognome di persone che stimi e che hanno contribuito alla tua crescita artistica

«Guarda, sono veramente tanti e, soprattutto, figure di vario tipo che vanno dalla prosa all’avanspettacolo, passando per il cantautorato più serio e impegnato. Per farti il primo nome che mi viene in mente: Milly, una cantante e attrice molto famosa quando ero ragazzina. All’età di tredici anni fu la prima a incitarmi, ricordo che un giorno mi disse: “sei molto intelligente, un sacco profonda, tanta merda!”, io ci rimasi malissimo (ride, ndr), non capivo cosa volesse dire, allora andai da Carlo Croccolo, che in quel periodo era il mio talent scout, lui mi spiegò che in realtà si trattava di un buon auspicio e che, ai tempi, se c’era tanta “popò” fuori dal teatro voleva dire che era pieno, perché gli spettatori arrivavano con la carrozza e con il cavallo. Oggigiorno si potrebbe dire pure “tanta benzina”!».

Mezzi di trasporto a parte, il mondo è completamente cambiato. Rispetto ai tuoi esordi, come valuti questa evoluzione o involuzione che dir si voglia?

«Avevamo tutto davanti, in più c’era una situazione politica piena di ideali, non si pensava solamente al guadagno, piuttosto ci si rimboccava le maniche per arrivare a quel determinato profitto. Questo era il busillis all’epoca, mentre oggi si pensa alle visualizzazioni, ma cosa vogliono dire tutti questi numeri? Cosa rendono realmente? Vendere mezzo milione di copie significava che ben 500.000 dischi si trovavano realmente a casa di altrettante persone. Adesso non si stampano nemmeno più cifre di questo genere, perché tanto va tutto in streaming, di conseguenza le case discografiche hanno ridotto il personale, non esistono nemmeno più i vari promoter che vanno in giro a scovare talenti. Hanno distrutto tutto quello che in passato si era riuscito a costruire».

Ho una curiosità riguardo un tuo collega emerso come te negli anni ’80, in realtà trovo che abbiate avuto inizialmente un percorso simile, entrambi avete faticato i primi anni, entrambi avete giocato molto con i look, entrambi proponevate qualcosa di insolito per il panorama musicale italiano. Mi riferisco a Mango, che rapporto avevate e che ricordo hai di lui?

«A me è sempre piaciuto, lo trovavo molto dotato, sia come autore che come cantante, però non ho mai avuto l’opportunità di parlarci e di conoscerlo più approfonditamente, l’ho incrociato una volta a casa di Mogol, ma non abbiamo mai proferito parola. Infatti, facendomici pensare è strano, perché l’età è la stessa, non saprei dirti il perché. Ma che segno era? (controllo su google e le riferisco che era nato sotto il segno dello scorpione, ndr). Ah beh, io sono cancro, due segni d’acqua che tra di loro vanno d’accordissimo. Sai chi mi parlava spesso di Mango? Giuni Russo, mi ricordo che a lei piacevano un sacco sia lui che di Nino Buonocore».

L’hai appena citata, non posso non chiederti un ricordo di Giuni Russo

«Io e Giuni eravamo molto amiche. Sai, penso che ognuno sia libero di frequentare chi vuole, di avere le proprie amicizie anche al di fuori di una relazione, perché mai Giuni non si sarebbe dovuta confidare con me? Che male ci sarebbe? Spiegamelo per favore, perché non l’ho mica capita questa cosa. Abbiamo cantato insieme, facevamo parte della stessa etichetta, tutte e due non ci siamo trovate benissimo con una nostra discografica (sorride, ndr), meglio di così…».

Nei tuoi testi hai sempre parlato di argomenti per nulla scontati, dal sesso alla morte, dall’aborto al suicidio, seppur con scioltezza e un pizzico di humor nero. Pensi che il pubblico in passato fosse più attento a recepire certe tematiche rispetto ad oggi? 

«Penso che il pubblico in passato leggesse di più e fosse assolutamente più colto rispetto a quello attuale, che ci tenesse di più alla conoscenza personale. Adesso il pubblico è un pochettino più ignorante, ma perché non sa, ignora, anche a causa di quello che gli viene proposto dalla televisione generalista. I programmi di qualità ci sono, ma te li devi andare a cercare, per esempio Rai 4, Rai 5 e Rai Cinema fanno delle cose molto belle, in riferimento a tutti i tipi di arte, però la gente bypassa, anche se ultimamente sembra che qualcosa si stia muovendo in senso positivo, guardando certe trasmissioni come “Indovina chi viene a cena” o “Report”, riconosco che c’è più voglia di informare rispetto al passato».

Mi scappa di chiederti… cosa ne pensi di Achille Lauro?

«E’ un bel ragazzo, una bella figura, alta… ma non saprei dirti cosa canta (ride, ndr), ma sarei curiosa di assistere ad un suo concerto. E’ un artista che gioca molto con i look, proprio come David Bowie, ma anche come la sottoscritta. Erano anni che non veniva fuori un personaggio di questo genere, c’era bisogno di un po’ di inventiva».

Essendo una cantautrice, negli anni non hai interpretato tantissime cover, mentre negli ultimi tempi sembra che sia tornata un po’ questa tendenza. Qual è il tuo pensiero a riguardo?

«Qualcuna ne ho fatta, ho cantato due pezzi di Mina, a modo mio, devo dire che sono venute anche bene. Beh, ultimamente sì, sembra che sia tornata un po’ la moda come negli anni ’60, quello che mi domando é: ma Tiziano Ferro ha realmente bisogno di fare un disco di cover? Mi dispiace, perché credo sia un ottimo autore. Spero faccia un disco che abbia un senso, un po’ come fece qualche anno fa la Pausini con “Io canto”, perché Laura ha una grande voce, ha scelto bene i brani ed è riuscita a portare all’estero grandi pezzi della tradizione italiana».

A proposito di questo, avendo anche tu esportato tanto la nostra musica all’estero, riesci a darti una spiegazione sul perché negli ultimi anni si faccia più fatica ad uscire dai confini nazionali?

«Perché non c’è più la discografia, hanno lasciato tutto allo sbando di internet. Non ci sono più i grandi della musica, da Ladislao Sugar a Carlo Alberto Rossi, da David Zard ad Alfredo Rossi, per non parlare di un grande come Michele Mondella, che purtroppo ci ha lasciati da poco. Pensa che lui mi stava producendo, stavamo lavorando insieme, proprio nel periodo in cui partecipai a “Tale e quale”. Mi sento spesso con sua moglie Silvana, ci facciamo grandi chiacchierate. In generale, per il mondo dell’arte, quest’estate abbiamo pianto gli addi di grandissimi artisti, cito Franca Valeri ed Ennio Morricone, questo non fa altro che creare ulteriore smarrimento in un momento delicato come quello che stiamo vivendo. Quelli giusti che restano devono farsi sentire».

Studiando la tua storia e ripercorrendo il tuo percorso mi è caduto l’occhio su un episodio cruciale della tua carriera, il cosiddetto bivio, ovvero quando lasciasti la Ariston per approdare in CGD. Ci racconti com’è andata?

«Quello è stato un salto nel vuoto, col senno di poi sarei dovuta rimanere alla Ariston, ma bisognava trovate un punto di incontro perché qualcosa si era rotto, ad un certo punto non mi sentivo più compresa e mi sono detta: allora vado dove mi capiscono. Tanti miei colleghi mi consigliavano di passare in CGD, invece io… figlia della Ariston… sarei dovuta rimanere lì, dall’altra parte ero soltanto un numero».

E’ un po’ quello che purtroppo accade ancora oggi, quando molti giovani traslocano da una realtà indipendente ad una major. Senza nasconderci dietro un dito, spesso è anche una strategia per toglierti dal mercato, ti arruolano per sfoltire la concorrenza e ti parcheggiano in una angolo. Questo trovo sia davvero orribile…

«E cattivissima come cosa, lo so bene e ti dirò di più, sono stata davvero male, in quel periodo lì avevo le lacrime in tasca, ogni giorno andavo dalla Caselli e le chiedevo di farmi tornare alla Ariston. Lei giustamente mi sottolineava che avevano già investito dei soldi su di me, per cui si trattava soltanto di riguadagnarli. Io non mi sentivo più un cavallo vincente, perché non avevo attorno una scuderia che credesse in me, lei mi ripeteva spesso che non è la scuderia a fare il cavallo, ma viceversa. Per me non era così, tutt’oggi sono convinta che il team sia fondamentale quanto l’artista. Ai ragazzi che stanno vivendo una scelta di questo genere dico: se vi trovate bene nel posto in cui siete nati… dove avete mangiato pane e cipolla… restate lì, le divergenze si superano. Può essere pure che ad un certo punto della mia carriera io mi sia sentita chissà che cosa, il successo era talmente grande che per una ragazza di venticinque anni era facile montarsi la testa, non è semplice restare lucidi in certi momenti».

Hai partecipato quattro volte a Sanremo, in fasi della tua vita completamente diverse, con quattro canzoni totalmente differenti. C’è un’edizione che non rifaresti?

«Sai, col senno di poi ti direi di no, ce n’era una che non volevo assolutamente fare, ovvero nel 1986, perché la canzone non era mia e sono stata costretta dalla casa discografica. All’epoca il Festival era un po’ un imbroglio, si votava con il Totip e le varie etichette acquistavano liberamente le schedine. Comunque con gli anni ho fatto pace con “Amore stella”, che non era poi una brutta canzone, ma non era mia, non me la sentivo cucita addosso, raccontava di un altra, non di me».

Ogni anno comunque il tuo nome circola tra i papabili candidati di Sanremo…

«Sempre, sempre, anche quando non ci penso io… ci pensano gli altri».

Ecco, per il prossimo anno invece hai dichiarato di volerci provare. Pensi di avere tra le mani il pezzo giusto?

«Innanzitutto bisogna vedere se ci sarà il Festival, una volta che mi decido io stai a vedere pure che non lo fanno (ride, ndr). A parte gli scherzi, ho letto le dichiarazioni di Amadeus e mi trovo d’accordo con lui, senza il pubblico è giusto rimandarlo. Dove si fa? Sui social? Ma no! Comunque penso di avere il brano giusto… anche per arrivare ultima (ride, ndr), mi presento sicuramente con un pezzo che fa sorridere, divertente, penso che ce ne sia davvero bisogno in un momento come questo».

Veniamo da un momento davvero difficile, come hai affrontato questi mesi?

«Guarda, speriamo che finisca tutto al più presto. Sono stati mesi pesantissimi, essendo soggetta a depressione il mio umore non è che stia benissimo, sono ancora sbigottita, non ho più una grande forza di reazione, o almeno non come vorrei. Ci sono dei giorni che rimango chiusa in casa, che non ho voglia di fare niente, comincia ad essere pesante questo non vivere, perché il tempo passa in ogni caso».

A livello sociale, cosa speri che questa situazione così estrema ci abbia insegnato?

«Purtroppo credo che alla maggior parte delle persone non abbia lasciato niente, mi ero augurata che questa situazione avesse riportato la gentilezza, il rispetto del proprio simile, insegnato nuovamente l’educazione… invece niente. Molti sono diventati ancora più cattivi e violenti, leggo dei commenti sui social che sono spaventosi. Come la metti la metti, la tecnologia ci ha rovinato».

Per concludere, qual è la l’insegnamento più importante che senti di aver imparato dalla musica in questi anni di attività?

«Che la musica bisogna rispettarla, difenderla e non contraffarla. Non ne posso più di questi parlatori, alcuni sono anche bravi, ma ormai ce ne sono troppi. Basta con questi tatuaggi, ricominciamo a cantare e fare musica sul serio».

© foto di Marco Piraccini

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.