Dutch Nazari: “Ho cercato di bilanciare la mia ambizione lirica con quella musicale” – INTERVISTA

A tu per tu con Dutch Nazari che si racconta in occasione dell’uscita del disco “Guarda le luci, amore mio”, disponibile a partire dal 3 ottobre. La nostra intervista al cantautore
C’è chi scrive canzoni, e chi scrive osservazioni da mettere sugli scaffali come fossero prodotti in esposizione. Dutch Nazari sceglie la seconda via, quella meno battuta e più rischiosa, ma anche più sincera. Il rapper-cantautore padovano torna il 3 ottobre con” Guarda le luci, amore mio” (Woodworm), quarto album in studio e nuova tappa di un percorso che intreccia lirismo, ironia e impegno sociale.
Ispirato dall’omonimo libro di Annie Ernaux, diario di riflessioni nate tra le corsie di un supermercato, il disco si muove tra quotidianità e critica, fragilità e consapevolezza, sfiorando con grazia il racconto del presente. Undici tracce che si ascoltano come piccole stanze, dove ogni strofa accende una luce nuova. Ne abbiamo parlato con lui, in un’intervista che attraversa scrittura, collaborazioni, identità musicale e uno sguardo sempre lucido sul mondo che ci circonda.
Dutch Nazari racconta il disco “Guarda le luci, amore mio”, l’intervista
Come si è sviluppato il processo creativo di questo progetto discografico?
«È una domanda con una risposta abbastanza precisa. Questo è il mio quarto LP in studio, quindi nel tempo ho capito che ogni disco ti lascia delle cose irrisolte che ti porti dietro per quello successivo. Dopo l’ultimo album, ad esempio, mi sono detto: “Sei andato un po’ pigramente a parlare d’amore quando non sapevi bene di cosa parlare”. Così, per questo lavoro, ho cercato di scrivere sapendo sempre cosa volessi dire davvero. Magari non è tutto preciso, come “parlo del martello e solo del martello”, ma ho cercato di non essere generico».
Hai raccontato che “Guarda le luci amore mio” è anche il titolo di un libro che ti ha ispirato. Che riflessioni ti ha suscitato?
«Ci sono arrivato tramite la bibliografia di un altro libro. Non conoscevo bene l’autrice, Annie Ernaux, che poi ho scoperto essere una grandissima scrittrice, recentemente anche vincitrice del Nobel. Il libro è un diario in cui lei annota pensieri e osservazioni fatte nei supermercati. Mi ha fatto riflettere molto: se stai denunciando una deriva consumistica della società, in fondo è come se stessi scrivendo le tue osservazioni mentre sei dentro un supermercato. Una metafora potente».
Quali skill pensi di aver acquisito con questo disco rispetto ai tuoi lavori precedenti?
«Dal punto di vista tecnico e stilistico, ho cercato di bilanciare la mia ambizione lirica con quella musicale. Mettere molte parole aiuta a essere precisi nel raccontare, ma bisogna trovare un equilibrio per non perdere musicalità».
Dal punto di vista sonoro, che tipo di lavoro c’è stato in studio per trovare il sound giusto?
«Il progetto Dutch Nazari è portato avanti da me e da Sick Et, che è stato sempre il direttore artistico del suono. In questo disco ci siamo confrontati molto anche con altri amici e musicisti, come Marco Zangirolami (che ha anche mixato l’album), Luigi Calmo e Luca Notaro, che hanno contribuito con molte idee, soprattutto alle chitarre».
I tuoi testi sono densi, complessi. Pensi che questa tua ricerca testuale, in un’epoca di ascolti sempre più veloci, sia un limite o un valore aggiunto?
«Sicuramente è una formula più difficile da far accettare, perché oggi l’attenzione si è molto ridotta. C’è sempre più offerta, quindi bisogna selezionare cosa seguire e quanto tempo dedicarvi. La sfida è portare più persone possibili a voler fare questo investimento di ascolto».
C’è una traccia dell’album che ha preso una direzione diversa rispetto a quella che avevi immaginato all’inizio?
«Sì, per esempio “Anche la luna”. È stata una specie di mistero musicale: il testo è arrivato in modo piuttosto lineare, ma l’arrangiamento ha richiesto molto lavoro. Ha cambiato più volte forma, e alla fine il risultato mi ha stupito positivamente».
Come scegli i titoli delle canzoni? Nascono prima o dopo rispetto al testo?
«Molto spesso i titoli provvisori nascono dai nomi dei file audio, poi vengono sostituiti da parole chiave che riassumano il significato del testo. Una volta ho sentito Barbero dire che i titoli sono sempre l’ultima cosa: con me funziona un po’ così».
Tra gli ospiti di questo progetto spiccano Willie Peyote e Levante. Come sono nate le collaborazioni?
«Willie è un amico di lunga data, con cui ho già collaborato. Con Levante è stata la prima volta: non era scontato che accettasse, ma è stata molto gentile e veloce nei tempi. Le ho chiesto di ricantare un ritornello sulla mia voce, e il risultato mi è piaciuto moltissimo».
Willie dice spesso di sentirsi a metà tra cantautore e rapper. Ti riconosci in questa posizione ibrida?
«Sì, assolutamente. Il mondo tende a etichettare per comodità, ma le etichette cambiano nel tempo. Quando io e Willie siamo arrivati sulla scena, sembrava strano che un rapper non avesse i catenoni. Ora invece è tutto più fluido, e il nostro modo di fare musica è più trasversale».
Con il tour “Guarda le date, amore mio”, torni nei club dal 21 novembre. Cosa dobbiamo aspettarci dal nuovo live?
«Abbiamo anticipato il tour con alcune date estive proprio per rodare la nuova formazione. Sul palco ci sono due nuovi elementi, quindi abbiamo usato l’estate per testare tutto. Il nuovo tour conterrà molte canzoni del disco, sarà un live rinnovato, ma con una band già affiatata».
Se “Guarda le luci amore mio” fosse un film, che genere sarebbe?
«Mi piacciono le commedie drammatiche, quelle che sorridono, non troppo opprimenti. Mi viene in mente “Pane e tulipani”, o anche certe commedie francesi recenti. Direi: una commedia gentile».
Per concludere, c’è un particolare insegnamento che pensi di aver ricevuto dalla musica?
«Ne ho tanti, ma te ne dico uno. Quando inizi a creare qualcosa, non è il momento di giudicare se l’idea è buona o meno. È come mettere sabbia in un secchio: poi verrà il momento per costruire i castelli. Intanto, buttaci dentro la sabbia».