Eddie Brock: “La vera rivoluzione consiste nell’amare le piccole cose” – INTERVISTA
A tu per tu con Eddie Brock per parlare del suo ultimo singolo “Non è mica te” e del bel momento che sta vivendo. La nostra intervista al cantautore romano classe 1997
Eddie Brock, all’anagrafe Edoardo Iaschi, sta vivendo il momento di svolta che ogni cantautore sogna: la sua “Non è mica te” è diventata virale, ha superato i 10 milioni di stream su Spotify e ha trasformato una storia scritta quasi in punta di penna in un coro condiviso da migliaia di persone. Un brano che parla di un amore mancato, dentro un progetto più ampio come l’album “Amarsi è la rivoluzione” (qui la nostra precedente intervista), dove la fragilità diventa forza narrativa e la gentilezza un atto profondamente rivoluzionario.
Mentre lavora ai nuovi brani che andranno a definire il prossimo capitolo del suo percorso discografico, Eddie Brock si prepara anche al suo giro nei club, l’Amarsi in Tour, atteso tra fine marzo e inizio aprile 2026 con date per ora programmate a Milano, Roma, Napoli e Catania. Un’occasione per trasformare il successo digitale in incontro fisico, sguardi, cori e condivisione. Della sua musica, del peso improvviso di un successo virale, del lavoro “normale” che ancora oggi affianca alle canzoni e di cosa significa continuare a crederci senza snaturarsi, abbiamo parlato proprio con lui in questa nostra intervista.
Abbiamo tante cose di cui parlare, perché stai vivendo un momento incredibile grazie al successo di “Non è mica te”, ma partirei dai live. Con “Amarsi in Tour” in programma nella primavera del 2026 a Roma, Milano, Napoli e Catania: cosa può aspettarsi chi verrà a sentirti e cosa ti aspetti tu da questi appuntamenti?
«Quello che voglio fare è proprio creare un momento di aggregazione. Non ci sarà “il cantante”, in questo caso il sottoscritto, sul palco, sopra gli altri che si dà aria: vorrei che fossimo tutti al centro dell’attenzione in quel momento. Il pianista, il chitarrista, la ragazza che canta sotto, il ragazzo che urla: tutte le persone sullo stesso piano. Un momento di aggregazione, una grande famiglia: questo è quello che spero succeda»
Il titolo “Amarsi in Tour” prende spunto dal tuo album “Amarsi è la rivoluzione”. Perché, nell’epoca di oggi, amare diventa per te qualcosa di così sovversivo e rivoluzionario?
«Perché, oltre ad amare una persona, oggi quasi nessuno ama più le piccole cose. Sono il primo che a volte se ne dimentica, quindi è anche un modo per ricordarlo a me stesso. Tante cose le diamo per scontate, tipo prendere un caffè con gli amici, in realtà sono un grande gesto d’amore. Non è da sottovalutare il fatto che una persona stia un’ora a parlare con te al bar. Anche dire “buon lavoro” a tutti quando esci: vedo il sorriso della gente, perché magari non sono abituati. Questi piccoli gesti a me mettono allegria, e rispetto alla routine di oggi sono davvero rivoluzionari».
Nel tuo recente monologo a “Le Iene” hai raccontato molto bene il momento che stai vivendo e il tuo percorso. Partiamo dall’inizio: come ti sei avvicinato alla musica e quando hai capito che poteva essere la tua strada? C’è stato un episodio preciso o è stato un processo graduale?
«Oggettivamente devo ancora realizzare tutto (sorride, ndr). Non c’è stata un’epifania, un momento in cui ho detto: “Ok, posso farlo da grande”. Io l’ho sempre fatto. Ho sempre scritto canzoni, fin da quando avevo undici anni, facevo rap con gli amici, registravo le cose col telefonino, in qualità scarsa, ma le registravo. Le ascoltavamo a ripetizione per capire quali rime funzionassero. Era proprio il piacere di farlo, di raccontare storie. È sempre stata metà della mia vita: scuola e lavoro da una parte, musica dall’altra. A un certo punto mi sono detto: “Mi piacerebbe fare questo lavoro da grande, ci provo”. Poi non sai mai se andrà bene o no, ma la soddisfazione più grande è stata vedere che, credendoci, le soddisfazioni sono arrivate, anche prima delle ospitate in tv».
Uno dei motivi del successo di “Non è mica te” è l’immedesimazione: la gente ci ha rivisto la propria storia. Da ascoltatore, è successo anche a te? Ci sono canzoni o dischi che ti hanno fatto dire: “Questo parla proprio di me”?
«Assolutamente sì. “Ognuno ha quel che si merita” di Fabrizio Moro è una di quelle. Ma la prima canzone che mi ha davvero fatto venire i brividi è stata “Libero”, sempre di Moro. Ero piccolo e ascoltavo ancora quello che metteva mio padre, però poi, quando ho iniziato a scegliere da solo, Fabrizio è stato il primo artista che ho scoperto. Lì ho proprio pensato: “Oh, questo so io”».
Te lo avranno chiesto in molti, ma da fan Marvel devo farlo: come nasce il tuo nome d’arte, Eddie Brock? Perché proprio Venom e questo personaggio?
«Mio zio era un fumettista amatoriale. Io da piccolo avevo le fisse e gli chiedevo sempre di disegnarmi SpiderMan e Venom, i miei preferiti. In fondo, mi affascinava di più l’antagonista, forse perché mi ci rivedevo un po’, forse perché aveva dei pesi da risolvere e veniva un po’ bistrattato. Da lì lui ha iniziato a chiamarmi Eddie, da Edoardo. Un giorno, durante una battle di freestyle allo Zobar di Roma, bisognava scegliere un nome: mi è venuta in mente la scena del film di SpiderMan di Raimi in cui lui entra nel ring e gli danno il nome a caso. Ho pensato: “Voglio scegliere anch’io un nome così”. Ai tempi faceva figo avere nome e cognome, così mi è uscito: “Eddie… Brock”».
Oggi sei a Milano per la promo, ma vivi a Roma e, oltre alla musica, gestisci case-vacanza. È un lavoro che ti mette in contatto con persone di tutto il mondo, quasi come viaggiare stando fermi. Quali skill ti ha restituito dato questo mestiere?
«Questo mestiere mi ha sciolto molto umanamente. Di solito, quando conosci qualcuno per la prima volta, tendi a mascherarti un po’, perché non sai chi hai davanti. Con questo lavoro ho proprio tolto il filtro dell’approccio. So chi sono, non so chi ho davanti, ma mi aspetto che anche l’altro prima o poi tolga i filtri. Se preferisce nascondersi dietro un personaggio è una sua scelta, ma non cambia il mio modo di pormi. Il contesto, poi, abbatte tanto i muri. È quasi una missione: far stare bene chi hai di fronte. È un “pensare prima agli altri” che nasce per dovere, ma poi lo applichi nella vita, perché apisci il lavoro che c’è dietro. Ho imparato tantissime cose vedendo quello che c’è dietro».
Se ti chiedessi di scrivere la prefazione di un libro intitolato “Manuale di istruzioni per sopravvivere a un successo virale”, quali sarebbero i primi due o tre consigli che daresti… agli altri e, sotto sotto, anche a te stesso?
«Continua a lavorare… ma non solo con la musica. Non lo chiamerei neanche piano B, è proprio mantenere la tua vita normale. Continua a fare tutto quello che facevi prima, senza cambiare una virgola. Se ci sei riuscito facendo quella vita lì, non vedo perché cambiarla dopo. Questa è la cosa principale che mi sento di dire, e che ricordo anche a me stesso»,
In una nostra precedente intervista mi avevi detto che hai imparato che “non tutto è bianco o nero” e che “possiamo tracciare tanti sentieri”. Oggi, guardando a questi anni tra alti e bassi, fatti anche di palchi improvvisati e locali mezzi vuoti, cosa ti rende davvero orgoglioso del tuo percorso?
«Il non aver mai abbassato la testa. Ci sono stati momenti bruttissimi in cui ho pensato di fare questo mestiere solo per passione, magari come autore per altri. L’ho valutato, certo, ma per me la cosa più bella è il live: io scrivo le canzoni immaginandomi sul palco davanti alla gente, quindi diventava un po’ limitante. Sono tanto orgoglioso del fatto che, anche quando ero triste, non mi sono arreso. Mi sdraiavo metaforicamente, ma poi mi rialzavo e continuavo. Ho visto i fallimenti da vicino e questo mi ha portato ad oggi, a questo bellissimo momento che sto vivendo».
Per concludere, alla luce di tutto quello che sta succedendo: cosa ti auguri per il futuro? C’è una promessa che senti di fare oggi a te stesso?
«Di fare questo lavoro da grande. È l’unica promessa che mi faccio. Mantenere la costanza, tenere la linea dritta e non perdere mai l’amore per la musica, senza lasciare che diventi una gabbia».