Elephant Brain: “Bisogna accettare gli imprevisti della vita” – INTERVISTA
A tu per tu con gli Elephant Brain, che si raccontano in occasione dell’uscita dell’album “Almeno per ora”. La nostra intervista alla band perugina
È disponibile dal 10 ottobre in tutti gli store digitali e dal 31 ottobre in fisico “Almeno per ora”, il terzo album in studio degli Elephant Brain che esce per Woodworm Label e arriva a tre anni di distanza da “Canzoni da odiare”, il disco che ha portato la band perugina a calcare i palchi di gran parte della Penisola confermandosi come una delle band più apprezzate della scena rock indipendente italiana.
Gli Elephant Brain sono Vincenzo Garofalo, Andrea Mancini, Emilio Balducci, Roberto Duca, Giacomo Ricci. Ecco cosa ci hanno raccontato in questa intervista.
“Almeno per ora” è un titolo che racchiude incertezza, consapevolezza e speranza. Da dove nasce?
«”Almeno per ora” è un disco in cui cerchiamo di fare i conti con quello che siamo oggi, sia come band che come singoli individui. In questo percorso di ricerca costante non si trovano risposte certe, ma forse si impara in un certo senso ad accettarsi, ad accettare gli imprevisti della vita come possibilità, alla fine, di vedere le cose da un’altra prospettiva, ad accettare la paura come dimensione costitutiva della nostra quotidianità (e di quella di tutti) dandole un nome diverso: istinto di sopravvivenza. Riconoscere le nostre fragilità, accoglierle, accorgersi che in alcuni momenti possiamo anche nelle difficoltà tornare a sorridere e prendere tutto il buono che ne viene».
Come si è sviluppato il processo creativo di questo vostro terzo disco?
«Avevamo alcuni provini da buttare, idee da sviluppare e altre che già cominciavano a funzionare. Siamo partiti da queste e poi il tutto si è sviluppato in modo molto naturale. Avevamo voglia di suonare questa roba qui, in questo modo. Siamo entrati per la prima volta in uno studio di registrazione a marzo e poi tra una sessione e l’altra abbiamo avuto modo di lavorare ad altre canzoni e quasi senza rendercene conto abbiamo visto che piano piano il disco cominciava a prendere forma».
Quali skill pensate di aver acquisito rispetto ai lavori precedenti?
«Non ci piace ragionare in termini di “skills”: preferiamo capire che direzione prende ogni singolo brano. Cerchiamo di capire se siamo soddisfatti di ciò che abbiamo dato musicalmente e, soprattutto, se è sufficiente per rendere l’idea del pezzo che avevamo in testa. Di solito questo è il primo ragionamento. Poi diamo anche uno sguardo d’insieme al lavoro del disco e ci chiediamo se tutte le nostre “voglie” musicali siano state appagate. Non succede quasi mai e forse è giusto così: in fondo, è bello che resti sempre qualcosa da esplorare in un disco futuro».
C’è un brano di questo disco che rappresenta meglio chi siete oggi?
«Tra tutti forse “Almeno per ora”, si può dire che in qualche modo racconti sia le fragilità che portiamo sul palco sia la carica per resistere e per provare a superarle».
In “Impareremo a perdere” cantate la disillusione con forza. In un’epoca iper performante come quella attuale, che significato assumono per voi le sconfitte?
«Accettare le sconfitte (anche se forse accoglierle potrebbe essere più corretto) è un percorso costante, e non siamo nemmeno sicuri di averlo veramente affrontato/superato. E infatti siamo ancora qua, ad alternare la nostra quotidianità ordinaria con la straordinarietà del fare musica, una cosa di certo non scontata».
Dal punto di vista sonoro, che tipo di lavoro c’è stato in studio dietro la ricerca del sound insieme al producer Jacopo Gigliotti?
«Un grande lavoro, a questo giro assieme a Jacopo si è unito anche Marco Romanelli. Per la prima volta siamo andati in uno studio di registrazione, siamo un pò usciti dalla comfort zone del “registriamo da soli” e poi facciamo mixare. Ci siamo “abbandonati” totalmente alla vita in studio (anche se per qualche ora/mezza giornata dovevamo staccarcene per andare a lavoro). Diciamo che abbiamo fatto svariate volte la strada Arezzo-Perugia alle 4 di notte, che spasso».
Cosa vi aspettate dal tour nei club e cosa può aspettarsi da voi il pubblico?
«La dimensione live è quella dove ci sentiamo sempre più a nostro agio, è il momento in cui si raccoglie il frutto di tutte le sere e le nottate passate a scrivere, a far tornare quella strofa, quello strumentale che proprio non ne voleva sapere di funzionare. È il momento in cui incontriamo le persone che scelgono di condividere con noi questo percorso e ce la metteremo tutta per dare uno spettacolo degno di questo nome, con tutta la carica che serve. Parole chiave: volumi alti, chitarre, pogo e birrette».
Per concludere, quali elementi e quali caratteristiche vi rendono orgogliosi di “Almeno per ora”?
«Ci rende orgogliosi aver prodotto il nostro terzo disco innanzitutto e ci teniamo davvero a non darlo per scontato. Ci rendono orgogliosi i suoni di chitarra, i momenti intimi, le parti strumentali cariche, forse anche proprio l’equilibrio che siamo riusciti alla fine a raggiungere. Ci stiamo divertendo moltissimo a suonarle live, anche questo è un bel punto a favore della costruzione del disco, carichi».