A tu per tu con Enrico Ruggeri, la nostra intervista in occasione dell’uscita de “La caverna di Platone”, album che rappresenta il suo quarantesimo tassello discografico
Ha tante cose da dire Enrico Ruggeri e le racconta ancora una volta in musica, all’interno del disco “La caverna di Platone”, fuori per Sony Music a partire dal 17 gennaio.
L’album, anticipato dal singolo “Il poeta”, arriva a tre anni di distanza dal precedente lavoro “La rivoluzione” e rappresenta il quarantesimo capitolo della sua saga discografica. In ogni traccia della tracklist, c’è grande cura nei confronti dei testi, ma anche un’accurata ricerca per quanto riguarda gli arrangiamenti, che ne esaltano sia le parole che l’interpretazione.
Abbiamo incontrato Enrico Ruggeri, attualmente impegnato con il programma tv “Gli occhi del musicista”, per approfondire i dettagli di questo nuovo e interessante progetto.
Intervista a Enrico Ruggeri
Come si è sviluppato il processo creativo di questo tuo quarantesimo album?
«Tutto è partito subito dopo l’uscita del mio precedente album “La rivoluzione”. Sono tornato nel mio studio, con la band, gli amici che sono venuti a trovarmi, quindi ho cominciato a registrare canzoni, tre anni fa. Naturalmente ci siamo anche fermati, siamo andati a fare concerti, poi siamo tornati in studio, abbiamo buttato via delle cose, altre le abbiamo rifate. Sono stati praticamente tre anni nei quali, periodicamente, andavamo a fare musica. A un certo punto ho messo la parola fine a questo processo, perché altrimenti non finivamo mai. È il classico disco la cui gestazione poteva andare avanti anche per altri cinque anni. Ho messo lo stop e abbiamo deciso di uscire».
Lo ritengo un disco rock-filosofico, al di là della citazione nel titolo di platoniana memoria, i temi che hai affrontato hanno a che fare con la percezione stessa della realtà. Mi riferisco al racconto distopico che fai ne “Il poeta” riguardo il Libero Pensiero, ma anche attraverso il vivido affresco di “Zone di guerra”. L’impressione è che sia un disco ispirato quanto ragionato, no?
«Tre anni sono tanti, oltre a stare in studio e occuparci dell’aspetto musicale, c’è anche tempo di rifare testi, di limare, di non sbagliare perché, quando affronti argomenti così delicati, poi devi cercare di fare più poesia possibile e meno cronache, che è un po’ quello che accade oggi con un certo tipo di musica. Perché se in un pezzo racconti di un duplice omicidio dettato dall’ostilità sociale, non stai facendo trap, ma è la trama di “Delitto e castigo”. Se parli di una gang di ragazzi che vivono miseramente e vanno a rubare in giro, non è trap, ma la trama di “Oliver Twist”. Il punto non è l’argomento che utilizzi, ma il modo in cui lo tratti. Non si posso utilizzare solo duecento parole del nostro vocabolario. Questo credo che sia il vero problema e, nelle mie produzioni, cerco sempre di esporre nella miglior forma possibile ciò che mi viene in mente di raccontare».
A proposito di poesia, l’ascolto si apre con “Gli eroi del cinema muto”, un pezzo che mi ha fatto venire in mente una riflessione sull’importanza che restituisci alla musica in determinati pezzi. Certo, tu sei molto attento ai testi, ma se penso a una canzone come “La bella epoque”, contenuta in un disco dei Decibel, piuttosto che a “Primavera a Sarajevo, bisogna ammettere che tu riesci a trasportarci sia nelle epoche che nei luoghi delle tue canzoni. Quanta importanza dai al vestito sonoro?
«Tantissima. Il testo comunque lo fai, ti piace, non ti piace, lo butti, lo tieni. Ci puoi mettere mezz’ora, un’ora, due ore. Un arrangiamento ti può portar via mesi. Perché trovo che sia un limite dalla canzone italiana, a partire dal cantautorato degli anni ’70 e ’80, quello di realizzare arrangiamenti un po’ sciatti. Sì, sapevano di scrivere grandi testi e si accontentavano. Io spero, insieme ad altri colleghi, di aver avviato una generazione diversa, di quelli che sono convinti che un arrangiamento può cambiare il destino di una canzone».
Un altro tuo illustre collega, Roberto Vecchioni, in un’intervista lui mi disse che gli stava un po’ stretta questa etichetta di grande autore di testi, perché si è sempre reputato anche un buon melodista. Oltre che i natali meneghini, mi viene da pensare che hai in comune con il Professore anche questo gusto musicale, no?
«Il gusto musicale è tutto. Io ho dalla mia il fatto di essere cresciuto col progressive, con il punk, con Bowie, con Lou Reed, con i cantautori francesi, con il jazz, con l’heavy metal. Ho ascoltato veramente musica molto diversa e tutto quello che ho ascoltato, in qualche modo, rende varia la mia musica. Va bene scrivere testi importanti, ma bisogna porre attenzione anche all’aspetto musicale e non relegarlo a un mero accompagnamento».
Ne “Il problema”, invece, invece parli del sistema e fai un po’ la voce fuori dal coro, rispetto a quanto viene detto in molti pezzi di oggi che ostentano beni materiali. La felicità e anche altro…
«Assolutamente. Se guardassi il grafico della felicità nella mia vita e il grafico del mio conto in banca mi renderei conto che l’andamento sarebbe completamente diverso. Rimango dell’idea che i soldi non siano totalmente ininfluenti nel creare o meno la felicità, tanto è vero che a New York vanno tutti dallo psicanalista e in Congo non esiste lo psicanalista perché hanno problemi ben più seri. Quindi, in realtà, la felicità prescinde dai soldi e mi intristisce il fatto di sentire canzoni dove sembra che il valore morale principale dei ragazzi di oggi sia il denaro».
Nei crediti del disco ci hai tenuto a fare una precisazione: accanto alla voce “voce di Enrico Ruggeri” hai scritto tra parentesi e in maiuscolo “No autotune”. Ma diciamo che hai un timbro talmente unico e inconfondibile che la cosa è alquanto palese…
«Quella è una mia bischerata (sorride, ndr). Però va precisato che ci sono due tipi di autotune, quello che viene usato come uno strumento che crea quell’effetto che conosciamo e che omologa un po’ tutte le voci, e quello che viene infilato per correggere le imperfezioni, un po’ più leggero diciamo. Io non ho usato né l’uno né l’altro».
Per concludere, in un momento storico in cui la parola “artista” viene forse un po’ troppo abusata (per certi versi è quasi diventata un sinonimo di cantante), quale significato attribuisci oggi a questo termine?
«Persona che vuole raccontare qualcosa con poesia, persona che spera di passare alla storia e non necessariamente alla cassa, persona che cerca di creare un ponte con altre persone raccontando qualcosa di condivisibile».