A tu per tu con il rapper piemontese, in uscita a partire da venerdì 1 febbraio con l’album “Clash”
Non ha perso il suo stile Jari Ivan Vella, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Ensi, rappresentante di un rap maturo, sospeso a metà tra la vecchia e la nuova scuola. “Clash” è il titolo del suo quinto progetto discografico, in scaletta dodici brani tra cui spiccano tre tracce freestyle e diverse interessanti collaborazioni, da Attila a Johnny Marsiglia, passando per Patrick Benifei e Agent Sasco. Un album che, traducendo letteralmente il titolo, significa scontro ma che rappresenta, al tempo stesso, l’incontro tra due aspetti differenti della personalità e dell’identità artistica del rapper.
Ciao Jari, benvenuto su RecensiamoMusica. Partiamo da “Clash”, cosa hai voluto raccontare in questo album?
«Ci sono vari messaggi all’interno di questo progetto, nella prima parte ho voluto parlare di me scavando all’interno di aspetti un po’ più personali, mentre nella seconda ho tirato fuori quello che credo sia il vero carattere del rap. L’esigenza comunicativa che ho è quella di un ragazzo di trentatré anni che ha voglia di parlare di tante cose, di porsi delle domande e di dare delle risposte ai dubbi che sono alla base della vita di tutti».
In cosa pensi di essere cresciuto? Quali sono le principali innovazioni rispetto ai tuoi dischi precedenti?
«Penso di essere diventato maturo come persona, di pari passo con il mio pubblico che oggi possiede le chiavi giuste per sbloccare quello che dico. Con il passare del tempo crescono anche le tue esigenze comunicative, basta aprire gli occhi, fare un giro là fuori e collezionare un bel po’ di esperienze. Come artista mi sento condizionato dalle cose che accadono nella vita di tutti i giorni».
L’istinto tipico del freestyle e un’approccio riflessivo cantautorale convivono in questo progetto, ma anche nel tuo stile di scrittura. Cosa hai voluto raccontare scavando più nel profondo di queste dodici tracce?
«In primis volevo in maniera brutale parlare di rap. Onestamente non mi reputo “old-school”, ma nemmeno “new-school”, ma piuttosto una via di mezzo, diciamo pure “mid-school” (sorride, ndr). Ho avuto la fortuna di iniziare giovanissimo, quindi mi reputo un po’ uno young veteran. Arrivare ad una determinata profondità e affrontare un certo tipo di tematiche, credo che sia intrinseco alla personalità di ognuno di noi, chi conosce un po’ la mia discografia sa che ho sempre mescolato quelle che sono le mie carte migliori, col tempo sono diventato più bravo a calibrare i dischi su misura per me, essendo io una taglia forte (ride, ndr). Spingo su quelli che sono i miei due punti di forza: l’Ensi del freestyle, quello rabbioso cattivo incazzato e pronto a scavarti la fossa, e l’Ensi più introspettivo che ti parla delle sue problematiche in maniera adulta, anche lontano dalla mia zona di comfort».
Chi è Ensi oggi? Ti reputi cambiato rispetto ai tuoi esordi o sei rimasto lo stesso?
«Mi reputo un pazzo che va controcorrente e che crede ancora nei propri sogni. Francamente mi sento un privilegiato, perché ho assistito ai tanti cambi generazionali di questo genere, riscendo a restare nel gioco facendo dischi di livello, mi sono sempre spremuto per realizzare dei prodotti che fossero all’altezza oltre che testimoni di un’evoluzione coerente del mio percorso. Cerco di essere sempre fedele a me stesso e così sarà anche in futuro: non è che domani mi sveglio e mi metto a fare il cantautore impegnato o divento indie, oppure mi tingo i capelli colorati e mi metto a fare filastrocche con l’autotune. Il mio desiderio è quello di proseguire sulla strada di un rap maturo, navigando sul fiume principale e non sugli affluenti».
E tra questi affluenti, cosa pensi della trap? Non credi che rappresenti in qualche modo una sorta di un’involuzione del rap?
«In realtà no, ci sono dei ragazzi che usano quel tipo di sonorità ma scrivono molto bene, vedi Tedua o Ghali, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. L’unica cosa da cui prendo le distanze è questo materialismo che dilaga nella maggior parte dei testi: ma come biasimarli i ragazzi di oggi, con la situazione politica che stiamo vivendo, anche io se avessi diciott’anni mi metterei a parlare delle canne con gli amici e di com’è bello diventare ricco facendo rap. È un po’ brutale da dire, ma rispecchia la realtà di questi tempi, più che un’involuzione musicale la definirei un’involuzione sociale. Avendo un figlio penso spesso al futuro e a quello che succederà domani, pensare che la musica influenzi la società è sbagliato, è l’esatto contrario, altrimenti Bob Marley avrebbe salvato il mondo».
Secondo te, come se la sta passando l’hip-hop in questo momento?
«Direi benissimo, è sempre ai vertici delle classifiche, ci vogliono dappertutto. Guarda, io arrivo da tempi in cui anche solo ipotizzare di guadagnarci qualcosa con ‘sta roba era impensabile, sognavamo ma nessuno ci avrebbe scommesso nulla. Ho avuto la fortuna di assistere ai quindici anni in assoluto più rivoluzionari di questo genere, perché la scintilla degli anni novanta ha creato lo stile, premettendo a noi degli anni duemila di spiegare all’Italia che cos’è il rap, un concetto che prima era arrivato solo in parte, per poi spopolare nel 2006 con l’album “Tradimento” di Fabri Fibra, da quel preciso momento si sono accorti un po’ tutti dell’esistenza di questo genere, anche se tutto è cominciato molto tempo prima».
Come descriveresti il rap oggi?
«Il rap è immediatezza, il suo successo è anche causa di un demerito degli altri generi, non me ne voglia nessuno, bellissima musica ma alla fine la canzone italiana di che parla? Amori disperati, problemi mai risolti, che palle! Ma chi c’ha voglia di sentire questa roba? A livello mondiale, a parte gruppi leggendari, tutto ciò che viene fuori di originale ha a che fare con questo stile. Sarebbe bello se oggi venisse fuori una nuova ondata di cantautorato italiano e che i ragazzi si ritrovassero in altri artisti piuttosto che solo in noi rapper, pensa che carenza culturale c’è oggi se trovano interessante solo questo. Ai miei tempi era diverso, i valori che vengono trasmessi di questi tempi sono il materialismo e l’individualismo: i testi parlano di soldi, fighe e droghe, di come ieri non avevo niente e di come oggi ho tutto».
Come vedi l’evoluzione di questo genere in futuro?
«Il futuro di questa roba è assolutamente un’iperbole ancora crescente, non c’è possibilità di scampo da questo virus, perché rappresenta in assoluto il linguaggio più utilizzato dai giovani. Un tempo fuori dalla scuola eravamo in cinque ad ascoltare questo genere, adesso se passo davanti ad un istituto faccio l’autografo pure al professore (ride, ndr). Pensare che il rap sia solo per bambini è un concetto totalmente sbagliato e ormai ampiamente sdoganato, si tratta di un genere che rivoluziona di giorno in giorno il mondo della discografia».
Per concludere, qual è il segreto della tua longevità?
«Sono qui da dieci anni, facendo sempre del mio meglio, aggiungendo mattone dopo mattone al mio muretto, che non sarà alto chissà quanto, ma almeno è solidissimo. Diciamo che ho sempre parlato di cose che mi coinvolgono direttamente, credo che la responsabilità sia intrinseca ad ognuno di noi. Scindiamo l’artista della persona, ad esempio James Brown che ha contribuito al nostro genere musicale storicamente, non è che fosse uno stinco di santo. Personalmente mi reputo orgoglioso di rappresentare questo genere nel 2019, consapevole che la musica non cambia il mondo, purtroppo, lo dico da sconfitto, da uno che c’ha creduto veramente, ma nel mio piccolo almeno so di averci provato».
Nico Donvito
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