A tu per tu con il cantautore toscano, in uscita con il suo primo progetto solista intitolato “Forever“
Messi in stand-by i Baustelle, Francesco Bianconi torna sulla scena musicale con il suo primo album “Forever”, disponibile a partire dallo scorso 16 ottobre. Un lavoro minimalista, universale e senza tempo, un raccordo confidenziale, privato, acustico e introspettivo.
Ciao Francesco, benvenuto. “Forever” è il tuo primo progetto da solista, come si è sviluppato l’intero processo creativo?
«Sono partito da una volontà di sottrazione, perchè forse venivo dagli ultimi due dischi dei Baustelle molto massimalisti, molto stratificati, ricchi di suoni e di strumenti. Per controbilanciare, quando si è trattato di cominciare a realizzare qualcosa a mio nome, che riguardasse più il mio privato, tutto è andato verso una direzione più minimalista. Ad esempio ho tolto la sezione ritmica, il suono è più da camera, mi interessava mettere più in risalto ciò che raccontavo, senza pudore».
A proposito di piano e voce, trovo molto interessante “Storie inventate”, format da te ideato trasmesso sui tuoi canali social. Com’è nata l’idea di questo esperimento?
«L’idea del format è nata per passare il tempo, mi sono ritrovato a dover rimandare l’uscita del disco, in una strana estate senza concerti. L’intenzione era quella di rileggere alcuni brani con lo stesso stile di “Forever”, pezzi che per motivi diversi mi piacciono, pescando in ambienti molto lontani tra loro, da Francesco Guccini a Baby K. Se non fosse stato per mia figlia, on avrei mai pensato di rivisitare a modo mio “Playa“, una canzone che mi ha letteralmente martellato l’estate scorsa».
Come autore hai scritto praticamente solo per donne (Irene Grandi, Paola Turci, Anna Oxa, Noemi, Syria, Chiara Galiazzo, Chiara Civello, Marianne Mirage), c’è un motivo in particolare?
«Mi piacciono anche le voci maschili, ma se devo fare l’autore trovo più affascinante scrivere per delle donne, non so neanche bene per quale motivo. Quando scrivi per altri è un po’ come calarsi nei loro panni, cucire un vestito su misura, per cui considero un esperimento ancora più riuscito passare da un sesso all’altro. Se la canzone riesce mi da ancora più soddisfazione, mi trovo più gratificato. Lo considero un processo maggiormente creativo».
Sei uno dei pochi artisti, direi reduci, a non aver mai calcato il palco dell’Ariston di Sanremo, qual è il tuo pensionale pensiero sul Festival? La consideri una manifestazione in linea con il tuo modo di intendere l’arte?
«Non ne faccio un discorso artistico, l’arte spesso non sta neanche al di fuori di Sanremo (sorride, ndr). Ne faccio un disco personale, non sono tanto incline alle gare, in generale alla televisione, a quella forma di promozione televisiva. Essendoci stato come autore, ho avuto modo di conoscere e osservare il Festival da dietro le quinte, come essere umano non sono molto adatto a quel tipo di pressione, a quel tipo di forsennato carosello mediatico. Insomma, non mi sento giusto per quel contesto lì, lascio a chi è più bravo calcare quel palco».
Per concludere, alla luce del complicato momento che stiamo vivendo, quali riflessioni ti piacerebbe riuscire a trasmettere a chi ascolterà questo tuo disco?
«Mah, non lo so, perchè poi ognuno ha la propria interpretazione delle canzoni. Vorrei tanto che qualcuno lo giudicasse un oggetto così strano e fuori dall’ordinario, per cui vale la pena fermarsi e ascoltare, magari con un po’ più di attenzione del solito. Mi piacerebbe che qualcuno avesse la pazienza di soffermarsi e cercasse di andare oltre».
© foto Laura Villa Baroncelli
Nico Donvito
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