A tu per tu con il cantautore lombardo, in uscita con il suo primo album intitolato “La voce umana“
E’ disponibile sulle piattaforme streaming e negli store digitali dallo scorso 29 maggio “La voce umana”, il disco che segna l’esordio musicale di Francesco Sacco, giovane cantautore classe ’92 fortemente influenzato dalla musica classica, dal blues, dal rock internazionale degli anni ’70 e dal cantautorato nostrano. Radici che ritroviamo in questa sua opera prima, il cui titolo è un riferimento teatrale a Jean Cocteau, riassumendo quelle le che sono le tematiche trattate dalle tracce in scaletta. Approfondiamo la sua conoscenza.
Ciao Francesco, benvenuto. Partiamo dal tuo disco d’esordio intitolato “La voce umana”, cosa hai voluto inserire in questo tuo biglietto da visita musicale?
«Il titolo “La voce umana” è un tributo a un monologo teatrale scritto da Jean Cocteau, nel quale una donna telefona al suo amante che la sta per lasciare. Quando le risposte non arrivano lei inizia a parlare da sola e ad analizzare sé stessa e il rapporto che sta vivendo, analogamente a quello che ho fatto io con la scrittura di questo disco: il filo conduttore tematico sono le relazioni umane, mentre il materiale narrativo è in buona parte autobiografico. È un disco molto intimo e introspettivo: in un certo senso scriverlo è stata una lunga telefonata con me stesso».
La ricerca di contatto, l’introspezione e la relazione sono fra i temi principali di questo lavoro. In una società che viaggia sempre in maniera più veloce, dove ci si osserva esteriormente e forse ci si ascolta poco, come valuti il livello generale dei rapporti umani?
«Sicuramente la ricerca di contatto continuo attraverso la tecnologia paradossalmente ha allontanato le persone: il mio viaggio musicale parte proprio da qui, quando nella traccia omonima (“La voce umana”) parlo di un dio “fatto di pixel e di reti wifi, un dio vicino, che non dorme mai”. Ma nel seguito del testo c’è anche l’altro lato della proverbiale medaglia: “su nell’azzurro, nella vastità, c’è una suono perfetto, ti libererà”, verso che si riferisce alla ricerca di un contatto reale, concreto, non superficiale. Spesso si confondono comunicazione e contatto: la comunicazione può viaggiare anche a senso unico, mentre il contatto no. Questo a volte richiede una lentezza e un’attenzione che facciamo fatica a concederci».
Musicalmente parlando, invece, che tipo di sonorità hai scelto di abbracciare?
«Mi sono divertito a mescolare un po’ di elementi estranei: il punto di partenza è sicuramente il cantautorato classico, penso a nomi italiani come Tenco e Umberto Bindi, ma anche internazionali, come Serge Gainsbourg o Jacques Brel. Come spesso succedeva nelle loro ballate molte delle mie canzoni non hanno il ritornello. Poi, oltre alla backline “classica” pianoforte/chitarra, basso e batteria c’è l’elettronica: sintetizzatori, theremin, moog. Sicuramente la parte strumentale ha un grande peso in questo lavoro. Poi avendo curato anche gli arrangiamenti ho potuto dare libero sfogo a ogni mia suggestione: c’è un po’ di elettronica, molto cantautorato anni ’70, un po’ di rock e addirittura della musica sacra».
Facciamo un salto indietro nel tempo, c’è stato un momento preciso in cui hai capito che tu e la musica eravate fatti l’uno per l’altra?
«Se penso alla mia infanzia e adolescenza non ricordo momenti in cui non abbia voluto suonare. Non vengo da una famiglia di musicisti, quindi non è stato neanche facilissimo spiegare che avevo intenzione di fare sul serio, quando, a sette anni, ho chiesto di iniziare un corso di chitarra. Ma sicuramente il vero amore è arrivato durante l’adolescenza con la musica blues: scoprire che si poteva trasmettere così tanto con così poche note, un giro fisso fatto di tre accordi e una voce a metà fra canto e parola, mi ha dato tutto ciò di cui avevo bisogno per iniziare a comporre brani e testi originali».
Quali ascolto hanno accompagnato e influenzato il tuo percorso?
«Come ti dicevo il primissimo approccio è avvenuto con la musica classica, ma il primo vero amore è stato il blues. Poi tantissima musica anni ’70, dal rock dei Led Zeppelin alla perfezione armonica dei Beatles, passando per i cantautori, Guccini, De André e tutti i mostri sacri di quegli anni. L’altro tassello fondamentale è stato l’incontro con l’elettronica e il mondo dei software: anche se non faccio musica sperimentale poter cercare nuovi suoni mi stimola tantissimo. In questo senso mi ha aiutato tanto ascoltare gruppi come i Radiohead, o Oneohtrix Point Never e tutta la nuova scena americana».
Con quale spirito ti affacci al mercato? Come valuti il livello dell’attuale settore discografico?
«È un momento di grande cambiamento un po’ per tutti i settori, non solo quello musicale. La pandemia ha dato un’ulteriore botta alla digitalizzazione dei prodotti artistici, che siano musica, teatro o danza. Sicuramente non è un momento facile, ma sono fiducioso: tutti i periodi di grande cambiamento hanno vissuto attimi di crisi. In fondo il malcontento è un ottimo motore per l’innovazione».
Qual è l’aspetto che più ti affascina nella fase di composizione di una canzone?
«Sicuramente scrivere i testi è stato il primo tassello: l’intimità e l’introspezione seguite dal desiderio di raccontare fanno scattare un processo con il quale ti metti a nudo senza quasi accorgertene, un po’ come quando nei sogni di accorgi di essere scalzo o senza vestiti. La musica poi cerca di rafforzare il significato generato dalle parole con un linguaggio completamente diverso, una lingua muta ma iper comunicativa. È un processo quasi alchemico, e non ti puoi sbagliare sul risultato: o funziona o non funziona».
In questo periodo stiamo vivendo una situazione inedita a livello mondiale, l’emergenza sanitaria Covid-19 ha mutato, seppur momentaneamente, la nostra quotidianità. Tu, personalmente, come hai vissuto le ultime settimane e come stai affrontando questa graduale ripartenza?
«Sicuramente il lockdown è stato un periodo pesantissimo per tutti. Io mi reputo fra i fortunati: ho passato la quarantena con mia moglie e tantissimo lavoro sul disco, quindi non mi posso lamentare. L’aspetto della ripartenza che invece sto accusando di più a livello sociale è la totale assenza di casualità: per incontrare un amico o andare fuori a cena devi decidere tutto con largo anticipo, e questo elimina l’aspetto imprevisto dell’esistenza, che a volte regala le sorprese più belle».
A livello umano, per tornare al concept del disco, in che termini pensi potranno mutare le relazioni dopo la pandemia?
«Sicuramente la pandemia ha alimentato tantissimo la sfiducia, specialmente all’inizio, quando si capiva molto poco su cosa sarebbe successo, quindi le persone si evitavano a vicenda, cambiavano lato della strada o insultavano chi, senza borse della spesa, poteva sembrare andare “a spasso”. Ma questo è stato compensato da tanta solidarietà, uno dei sentimenti che mi commuove di più in assoluto. Quindi mi auguro che le cose si compensino, e se proprio qualcosa deve cambiare possa cambiare in meglio, con più ascolto e vicinanza fra le persone».
Per concludere, a chi si rivolge oggi la tua musica e a chi ti piacerebbe arrivare in futuro?
«Mi piace pensare che la mia musica sia per tutti: sicuramente ho semplificato molto la mia scrittura e (spero!) ho imparato a dire le stesse cose in modo meno ampolloso. Che è una cosa difficilissima, è il miracolo del pop. Sicuramente mi piace l’idea di andare sempre avanti in questo percorso».
© foto di Jacopo Brunello
Nico Donvito
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