sabato 23 Novembre 2024

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Frijda: “Il futuro dipende dal nostro presente” – INTERVISTA

A tu per tu con la band siciliana, in uscita con il loro nuovo singolo intitolato “Lo dedico a te

Tempo di nuova musica per i Frijda, rock band composta dal cantante Thor, dal chitarrista Gaetano Giuttari, dal tastierista Adrian Rus, dal bassista Domenico Cottone e dal batterista Emanuele Leocata. Si intitola “Lo dedico a te” il brano che segna il loro ritorno discografico, prodotto da Luca Venturi. In occasione di questa nuova uscita abbiamo incontrato per voi la voce, nonché il frontman del gruppo catanese, per approfondire la loro conoscenza.

Ciao ragazzi, benvenuti. Partiamo dal vostro nuovo singolo “Lo dedico a te”, cosa racconta?

«E’ un brano molto autobiografico: in tre minuti raccontiamo in musica anni e anni di sacrifici, di chilometri mai considerati, di spese, di critiche, di elogi, di amicizie, di nemici, di illusioni, di vita. Ci rivolgiamo alla musa della Musica, Euterpe, nella speranza che ci ascolti; e, come fosse unapreghiera, le chiediamo di darci delle risposte alle sofferenze esistenziali che ci fanno sentire,nonostante la fede viscerale alla musica, insoddisfatti; colpa di un mondo che rimane chiuso “nel suo mondo”, quello materiale, privo di ogni sentimento».

Sentirsi soli in un mondo apparentemente iper connesso e super affollato, credete che quest’epoca così digitalizzata generi paradossalmente più solitudine che in passato?

«Siamo soli e destinati a restare ancora più soli. Diverso tempo fa, prima che la tecnologia invadesse la nostra quotidianità, si sentiva il bisogno dicontatto, di vivere il mondo circostante. Ora, siamo padroni del mondo, e, online, in una frazione di secondo possiamo arrivare sullo spazio:figurati che, ormai, finanche i musei si possono visitare restando seduti sul divano di casa. Ma a che prezzo? L’alienazione. Siamo un mondo di alienati; stiamo vicini, ma comunichiamo tramite smartphone».

C’è una frase che, secondo voi, rappresenta e sintetizza al meglio questo vostro pezzo?​

«Sicuramente, analizzando il testo, emergono due concetti principali: l’alienazione dell’artista (e dell’uomo in generale) e la speranza. Tutto il brano ne è impregnato, ma, se dovessi scegliere le frasi più dirette, potrei evidenziare: “Dimmi perché ci si sente soli, se intorno a noi sento grida e rumori”, emblema dell’alienazione, diquella incapacità di avere contatti reciproci col mondo circostante; e “Io non ho smesso disognare…”, che lascia quella minuscola speranza che prima o poi le cose possano cambiare e, allostesso tempo, in ottica artistica, che tutto il sacrificio non sia stato vano. Il resto della Band ha poi creato la magia che nasce dalla capacità di entrare dentro al brano, daquello sguardo che, come quello di un genitore, guarda il proprio figlio crescere, e, nel nostro caso “prendere forma”. Il risultato è quello che, grazie alla collaborazione del nostro arrangiatore Carlo Longo, avete sentito e, con nostro grande orgoglio, apprezzato in questa prima settimana dalla pubblicazione».

Cosa aggiungono a livello di narrazione le immagini del videoclip diretto dal regista Filippo Arlotta?

«Non è la prima volta che lavoriamo con Filippo Arlotta, un grandissimo professionista. La sua bravura è stata quella di aver colto a pieno il significato del brano. Non è un brano superficiale, tratta il nostro disagio, le nostre difficoltà ad emergere vissute, e checontinuiamo a vivere. E, proprio perché autobiografico, abbiamo deciso di essere noi i protagonisti della storia, una storiafatta di live, di emozioni e di quella nostalgia che ci assale quando “si spengono le luci”. Inoltre, anche la location ha il suo grande valore: il mitico Waxy o’Connor’s di Catania, per circa quindici anni, ha rappresentato, per noi casa; gran parte della nostra crescita musicale è legata a questo locale. Un ambiente magico che, purtroppo, non esiste più. Nulla è stato lasciato al caso, tutto è fondato su unico comune denominatore che è la sincerità. Sincerità nel testo, nelle emozioni, nello stile e anche nel videoclip».

Facciamo un salto indietro nel tempo, come vi siete conosciuti e quando avete avuto l’idea di mettere insieme il vostro gruppo?

«Una domanda che potrebbe richiedere ore per essere soddisfatta. Cercherò di essere il più breve possibile, senza tralasciare nulla. L’idea di mettere su una Band mi venne nel lontano 1998, periodo liceale: scrivevo tanto tra poesie, aforismi, canzoni, ma tutto restava sulla carta e non mi bastava. Cercavo un modo per potermi aprire al mondo, di base sono estremamente introverso, anche se a molti può non sembrarlo. Ascoltai, casualmente, un brano degli Aerosmith, “Hole in my soul”, ne vidi il videoclip ed ebbi una sorta di “chiamata”, tipo sacerdozio, che mi spinse a scegliere la musica come il veicolo più idoneo per dare pace alla mia anima.

La prima Band, gli MDS, vide la luce nel 1999 e dalle sue ceneri, nel 2003, nacquero i Frida, nome che mi venne ispirato da alcuni studi universitari sulla pittrice messicana Frida Kahlo. Tanti live, tanta gavetta, tanti inediti sfornati, ma, nel 2014, qualcosa si ruppe e fui costretto a ricostruire da zero. Con gli attuali compagni di avventura, ci siamo conosciuti nell’ambiente live, tra passaparola e amicizie comuni, ma non sono mai mancate, neppure in questi anni, svariate sostituzioni di line up. Posso dire che siamo stabili dal 2015 e dal 2018 abbiamo deciso di trasformare il nostro nome da “Frida” a “Frijda”. Un’alterazione della forma, ma non della sostanza (considerato che non varia neppure la pronuncia): una sorta di rinascita senza aver cambiato la nostra essenza.

Inoltre, scoprimmo pure che, con questo nome, anzi, per essere corretto, cognome, esisteva un filosofo olandese, Nico Henry Frijda, famoso per gli studi sulle emozioni umane. E’ stata una casuale, ma piacevole coincidenza: il nostro obiettivo è proprio quello di, a prescindere dal tecnicismo, a volte più presente, a volte meno, nei nostri brani, cercare di dare libero sfogo alle emozioni. Pensiamo che, prima di dimostrare “quanto siamo bravi”, sia più importante avere qualcosa da dire, in piena sincerità con la propria anima. Insomma, da vent’anni viviamo un’esistenza molto travagliata. Ti garantisco che un altro avrebbe mandato in fumo tutto».

Quali ascolti hanno influenzato e accompagnato il vostro percorso?

«Tanti artisti appartenenti ai più svariati generi musicali. Siamo cinque persone con influenze differenti che hanno trovato diversi punti d’incontro nel Rock. Del Rock ci piace la versatilità, quella sua capacità di essere parecchio aperto alla contaminazione e alla sperimentazione, ma soprattutto, è il genere che ci scorre dentro e, quindi, a noi viene naturale. I nostri punti di riferimento sono legati a quei nomi classici del panorama Rock e Hard Rock internazionale: Deep Purple, Aerosmith, Led Zeppelin, Van Halen, Toto, Whitesnake, Rainbow, e la lista potrebbe contenerne tanti altri. A livello nazionale, siamo particolarmente legati a coloro che ci hanno insegnato il genere che suoniamo: Litfiba, Negrita, Ligabue, Timoria. Noi, ovviamente, abbiamo metabolizzato la lezione di tutti questi nomi citati, ma cerchiamo sempre di seguire una nostra strada più unica possibile che sia, soprattutto, al passo coi tempi».

Con quale spirito vi affacciate all’attuale settore discografico? Come valutate il livello generale del mercato musicale nazionale?

«Noi siamo nel mondo discografico, ufficialmente parlando, da ottobre 2018 (con l’uscita del primo singolo “Mentre muori di piacere”). “Lo dedico a te” è la continuazione di una strada intrapresa 5 anni fa con il nostro discografico Luca Venturi (un eroe che, come noi, crede ancora nella favola delle Rock Bands), e che culminerà con l’uscita dell’album “Scaccomatto”. Il nostro spirito è alle stelle; soprattutto quando tocchi con mano l’entusiasmo di chi ci ha sempre seguito e di chi ci sta conoscendo in questi giorni. Dobbiamo dire grazie a tantissime persone: ogni piccola cosa che stiamo vivendo è merito loro. Questo loro entusiasmo nasce, forse proprio, da questo sentirsi parte della Band; in tanti anni abbiamo sempre dato valore ad ogni persona e condiviso con loro ogni momento della nostra avventura e ognuno di loro credo possa confermarlo. 

Guardando il mercato discografico, posso solo dirti che ci sono tanti artisti degni di nota, ma anche molti, forse pure troppi, sopravvalutati. Appartengo alla vecchia scuola, quella fatta di sacrifici, di concerti in qualsiasi posto sperduto del pianeta senza badare al guadagno, ma alla voglia di regalare un’emozione. Ho fuso macchine, rifiutato lavori stabili, ho dormito per strada e viaggiato nascosto sui treni, tanto per citarti alcune cose. Forse la generazione passata viveva l’arte in maniera differente ed era disposta a tutto pur di riuscire a farsi sentire. Ora si cerca la notorietà facile per vanità: dimostrare di essere diventato qualcuno, piuttosto che avere voglia di trasmettere qualcosa. E, di riflesso, la musica, così come l’arte in generale, ne pagano le conseguenze. L’Italia ha tanti talenti che trovi nelle classifiche raramente, ma fortunatamente esistono, e finché ci saranno la musica sarà, seppur in parte, salva».

In questo periodo stiamo vivendo una situazione inedita a livello mondiale, l’emergenza sanitaria Covid-19 ha mutato, seppur momentaneamente, la nostra quotidianità. Voi, personalmente, come state vivendo tutto questo?

«Noi, purtroppo, non possiamo far altro che adattarci e rispettare le disposizioni ministeriali. Non credo faccia piacere a nessuno sentirsi privato della libertà, e già ne avevamo poca. Ovvio che tutto questo caos ha stravolto il nostro mondo. Abbiamo perso parecchie date e chissà quando potremo tornare a suonare live. Ne usciremo, grazie al nostro personale medico nazionale, che merita infiniti appalusi e che ci ha dato una bella sensazione di unità, senza dimenticare tutte le altre figure, comprese la Protezione Civile, che hanno dato grandissimo contributo alla causa: è proprio in queste tragedie che il senso di nazione si fa forte e ci fa sentire più uniti senza distinzione geografica Nord/Sud. Almeno io ho pensato, o sognato, cosi. Ma la mia più grande paura, vista la psicosi generale creata dal covid-19, è che tutto possa creare un ulteriore distacco sociale. Potrei apparire come un tipo molto pessimista, ma qui non si tratta di pensiero filosofico, si tratta di atteggiamenti che possiamo toccare tutti con mano girando nelle nostre città».

Se dovessimo trovare un aspetto positivo da tutta questa situazione, in cosa lo individuereste?

«L’unica cosa positiva, e detto in un periodo così tragico, potrebbe sembra di cattivo gusto, sta nel fatto che abbiamo ripreso a vivere. Abbiamo riscoperto cose più essenziali, più vere, che la vita frenetica di ogni giorno teneva lontane, o le dava per scontate, alle nostre percezioni. Io, personalmente, ho ripreso a godermi senza alcuna distrazione mio figlio, mia moglie, i miei genitori, i mei cani e ho fatto cose da sempre messe da parte. Lo stesso vale per tutti gli altri della Band, che sento quotidianamente, specialmente per Emanuele, che è diventato papà pochi mesi fa. Si potrebbe dire che forse, per qualcuno, “non tutti i mali vengano per nuocere”. L’uomo è un animale abitudinario e spero che, una volta tornato tutto alla normalità, si possa riuscire a mantenere questo nuovo equilibrio che ci ha fatto, sicuramente, molto bene».

Per concludere, a chi si rivolge oggi la vostra musica e a chi vi piacerebbe arrivare in futuro?

«Credo che non siamo noi a scegliere il nostro pubblico, ma sia l’esatto opposto. Ognuno di noi sceglie qualcosa perché la sente familiare, perché riesce a toccare nella maniera giusta i tasti della nostra sensibilità. Noi facciamo musica perché ci viene naturale farlo, e lo facciamo in forma estremamente sincera. Ogni canzone, anche quella che può, in apparenza, sembrare più leggera nei contenuti, nasconde sempre un significato molto più profondo. Ci piace essere sinceri, nel bene e nel male, con chi ci ascolta, portando avanti i nostri pensieri e quello che proviamo vivendo: non scriviamo per far felice qualcuno. L’unica nostra speranza è solo quella di riuscire a trasmettere emozioni, non importa a chi e non importa quando. Crediamo che il futuro sia una nebulosa incerta che faccia sopravvivere ai posteri l’arte di chi sia stato sincero. Quindi tutto dipenderà soltanto dal nostro presente. Grazie per la piacevolissima intervista e grazie a tutti coloro che la leggeranno. Vi saluto con una delle frasi più belle di Frida Kahlo: “Pies, para qué los quiero si tengo alas pà volar?”».

© foto di Salvo Torrisi

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.