Raccontiamo l’attualità con una canzone
Lo soprannominavano “computer” per la sua freddezza alla guida. A ventisette anni era già un idolo nel settore. Il problema è che, evidentemente, nella testa dei piloti automobilistici, essere idoli non basta: così, sfrecciando come una freccia nelle pieghe nel tempo, gli capitò un giorno di premere troppo forte l’acceleratore e finì per avere un grave incidente in Germania, rimanendo parzialmente sfigurato in viso. Ospedale, visite, fine della carriera e tutto quanto.
Poi una mattina come tante altre si è alzato, si è guardato il suo viso sfrecciato e al primo giornalista che gli capitò per strada gli disse: ritorno in pista. Da quel giorno indossò sempre un berretto rosso da baseball e si portò a casa tre titoli mondiali. Poi, probabilmente stanco di volare per strada, fondò tre compagnie aeree e ne fu direttore. Si chiamava Niki Lauda, il computer. È morto l’anno scorso e ciò che è rimasto di lui, oltre la sua freddezza alla guida è questa frase. “Preferisco avere il mio piede destro piuttosto che un bel viso”.
Frasi da manicomio. Ma anche da pilota. È una delle storie che mi è venuta in mente prima di scrivere quest’articolo. Uno di quegli aneddoti che mi fa pensare a cosa diavolo faccia portare a far sedere milioni di italiani sul divano, davanti alla televisione a vedere venti uomini seduti su della astronavi da corsa, e premere – come se dentro lì ci fosse racchiuso il loro destino – il pedale destro dell’acceleratore. Caschi che coprono le emozioni, ruote destinate a deteriorarsi in pochi giri, strade che continueranno a ripetersi all’infinito. Visto da fuori, la formula 1, è una noia mortale. Il ronzio ipnotico dei motori, il glossario assurdamente tecnicistico e americano di soprannominare le cose (anche se ammetto che chiamare Pitstop “sosta per le auto”, forse non renderebbe l’idea), il messianico scenario di un incidente che faccia vincere la macchina all’ultimo posto.
La formula 1 è la privazione di ogni cosa che ci piace nello sport. Tutto è ridotto, tutto diventa strettamente conteso in due mosse. Strada lunga, acceleri; strada curva, rallenti. Anche un bambino lo potrebbe capire. Il fatto curioso di queste gare è proprio questo. Da una parte, una semplicità grossolana e ingenua nel capire chi vince e come vincere: arrivare primo. Dall’altra, una domanda che fa della formula 1 un potenziale slancio poetico e umanamente utopistico per lo spettatore: che cosa fare con la propria strada?
Perché così come è nella semplicità che lo spettatore si siede a guardare macchine che corrono, allora è nei passaggi “normali” laddove il pilota scriverà il propio destino che gli spettatori si innamoreranno di lui. Può sembrare banale, ma psicologicamente è devastante.
In molti sport, la bellezza è nel finale. È negli ultimi sgoccioli dell’esistenza che si scopre chi sei. Il resto è solo la preparazione a quel momento. Ma nella formula 1 tutto questo è ribaltato. È un lavoro di resilienza, di abitudine alla scelta giusta. La consapevolezza di sapere che uno sbaglio anche stupido può compromettere tutto. Vai tu a spiegare ad una donna che tradirla per un’altra è stato solo un errore. Prova tu a non andare a vedere il saggio musicale di tuo figlio perché sei impegnato. Piccole cose che ti faranno perdere per sempre. Hai voglia poi a recuperare quelle scelte. Secondi infiniti e l’avversario davanti a te che si fa irraggiungibile. Questo è l’illogica illusione che milioni di italiani provano quando guardano la formula 1. Vedere sé stessi. Vedere come ogni piccolo sforzo fatto in una normale esistenza è in realtà, sotto la metafora di una gara automobilistica, un atto eroico; se proprio vogliamo dirla tutta, uno schiaffo al tempo. Perché nulla ci può logorare se abbiamo cura verso l’acceleratore della nostra macchina, nemmeno gli avversari, nemmeno il tempo. Così i piloti non guidano, ma ballano. Danzano con le ruote sul cemento vedendo percorsi che solo loro vedono, cercando mete che solo loro possono immaginare. E noi li seguiamo e non possiamo che pensare alle scelte che solo noi vediamo, e a cercare mete che solo noi possiamo immaginare. Vai a spiegarlo te che sono solo macchine che si rincorrono.
La cosa buffa è che quando i piloti si tolgono il casco sono essere anonimi. Persone che potresti tranquillamente trovare in coda alle poste o di fianco a te al cinema. Facce dimenticabili e tutto fuorché gloriose. Ma quando il rombo dei motori si innalza sotto le ruote, qualcosa in loro nasce. Chiamatela caparbietà, chiamatela sfrontatezza, ma qualcosa in loro si accende e lì diventa tutta una corsa contro sé stessi.
Un’ultima cosa. Dopo aver scritto questo articolo mi sono andato a cercare una canzone che mi ha sempre fatto commuovere anche se ignoravo il suo significato. Si chiama Ayrton di Lucio Dalla.
È, come si può ben capire, un omaggio al pilota brasiliano e alla sua tragica morte durante una gara. Perché la formula 1 è anche questo. L’annientamento di ogni paura. La certezza indissolubile di essere tutto. Ogni cosa. Tu, la tua strada e la meta. In quel momento si è tutto. Forse è per questo che alcuni piloti si spingono oltre. Non dico che cercano la morte, ma la vogliono vedere, toccarla con mano. Può essere pazzia, ma è in realtà un modo squisitamente poetico di vivere la vita. Affrontare la morte cercando di superarla in curva, piuttosto che vedersela arrivare alle spalle. Ballare sulla propria strada, piuttosto che percorrerla e basta.
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