giovedì 21 Novembre 2024

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Fuori il mondo come va?: Il primo e l’ultimo uomo

Raccontiamo l’attualità con una canzone

Vi racconto una storia. Poco dopo il Big Bang e poco prima dell’invenzione della felpa a zip, c’era l’uomo. O meglio, un discendente molto prossimo alla scimmia, con però una forte crisi nervosa d’identità e d’evoluzione (ammesso che si possa soffrire di crisi d’evoluzione).

Questo uomo-scimmia non se la cavava molto bene. Stava sugli alberi e non trovava da mangiare. Così scendeva dagli alberi e tutti cercavano di mangiarselo. Per capirci: se per puro caso questo uomo-scimmia avesse avuto la possibilità di puntare due euro in un centro scommesse, sarebbe stato alquanto sciocco da parte sua puntarli sulla propria sopravvivenza. Perché nulla c’era di più inutilmente grottesco e di più contrariamente evolutivo del nostro povero uomo-scimmia. Forse poteva competere solo il lemure, ma pare che siano tutt’ora in vita e che ci rimarranno per molto tempo prima che qualcuno sia in grado di capire il perché del loro muoversi come degli ubriachi all’Oktoberfest.

Tralasciando i lemuri. Il nostro uomo-scimmia, come già detto, se la cavava piuttosto male: del tipo che rischiava l’estinzione e quindi la sua scomparsa dalla faccia della Terra. Il che era un bel guaio: per gli altri animali intendo, visto che la difficoltà nel cacciare l’uomo-scimmia era pressoché la stessa di cercare un po’ di fresco nel Polo Nord. Per l’uomo-scimmia, invece, accarezzare l’idea di essere l’ultimo della sua generazione gli parve illuminante, se non addirittura eroico. Decise di passare le giornate sfidando la sorte, nella consapevolezza che ogni giorno poteva essere l’ultimo; non solo per lui, ma per tutta la sua specie. In ogni modo, la morte non lo prese e lui rimase piuttosto amareggiato. L’amarezza divenne frustrazione, e ben presto la frustrazione diventò noia.

La Terra era piena di ogni sorta di creatura che faceva il possibile per rimanere in vita, mentre l’unico animale consapevole e in attesa di riempire il necrologio, si annoiava. E la noia, da che se ne dica, è una delle più grandi forme di torture inflitte all’umanità. Con “umanità”, intendo ovviamente il nostro povero uomo-scimmia (di fatti, una volta stabilito il suo ruolo come unico rappresentante degli uomini sul globo terrestre, la conclusione ovvia di tale premessa è che ogni cosa accada a lui, accada perciò a tutta l’umanità. Quindi non vi dovete stupire se sostengo frasi come: l’umanità era avvolta nella noia).

E non dovete stupirvi neanche se lo dico fuori dalla parentesi tonda: l’umanità era totalmente avvolta nella noia. I giorni passavano e le giornate faticavano a riempirsi. Fu in una di quelle lunghe giornate che tutto cambiò. L’uomo-scimmia camminava a zonzo cercando qualcosa che lo stimolasse o, tutt’al più, qualche affamata creatura che lo divorasse. Non trovò né una né l’altra cosa. Al loro posto trovò qualcosa di totalmente estraneo alla sua, fino ad allora, esistenza: delle lacrime sul suo volto. L’uomo-scimmia stava piangendo. Non si soffermò troppo a chiedersi per quale motivo: fu troppo sorpreso da quel gesto, così nobile, così fragile, così poco animalesco. Tutta l’umanità stava dunque piangendo. E in quel momento, un roseo tramonto ricoprì il cielo sopra l’uomo-scimmia e fu come se fosse stato colpito da un fulmine, perché in quel momento, tutto gli divenne chiaro. Vide che da lì a poco – un qualche milioncino di anni – un suo discendente avrebbe scoperto il fuoco e che sarebbe riuscito ad usarlo, oltre per difendersi dalle altre bestie, per cucinare in maniera particolare la carne inventando di sana pianta quello che poi gli umani a venire avrebbero chiamato con il nome: barbecue; poi vide i primi edifici umani, sempre più comodi, sempre più tecnologici; e poi l’aratro, la matematica, popoli che si incontravano, dei libri che avrebbero plasmato delle civiltà, e con esso dei valori e dei principi, che poi sarebbero stati volentieri messi da parte per farci guerre, massacri, violenza, e orrori di ogni tipo, come edifici che cadono, o bambini che piangono, o gente messa in croce perché credeva che alla fine volersi bene non è poi una cosa così stupida; così l’uomo-scimmia ebbe paura, eccome se ne ebbe; però vide anche che l’uomo era capace di cose incredibili, come la danza, l’arte, la cultura, e degli strani spettacoli musicali dove la gente non si picchiava con una clave per stabilire chi fosse il più bravo ma con l’armonia e la poesia della loro voce; così l’uomo-scimmia scoprì quello che sarebbe stato la musica e in particolare una canzone che gli piacque tanto e che in fondo parlava di lui: Occidentali’s karma di Francesco Gabbani; ma poi andò oltre e osservò come i suoi discendenti continuavano a fare delle cose bellissime e poi tremende, e di come non imparavano nulla dal loro vivere e del loro stare al mondo perché continuavano a sbagliare, a sbagliare e a sbagliare di continuo, però in maniera tenera perché gli bastava poco all’uomo per ritrovare sé stesso, non lo so, un po’ d’amore, uno sguardo di una donna, una foglia che cade, un bacio di una nonna; e allora ritornava a credere nella bellezza e nel futuro ma poi si perdevano e si imbronciano e tutti arrabbiati faceva delle cose assurde come invadere la Polonia o credere che il potere debba essere riservato solo ad alcuni tipi di esseri umani; e giù di disastri e obbrobri di ogni tipo, ma anche capolavori e scoperte da lasciare col fiato sospeso; e l‘uomo-scimmia guardava e osservava ogni cosa ma non gli riusciva di capire bene i suoi discendenti perché gli sembravano troppo confusi e troppo sfumati per definirsi semplicemente buoni o cattivi, e fu così, nel bel mezzo dei suoi pensieri che all’improvviso, appena il tramonto era sul punto di cessare, a pochi passi da sé, e non molto diverso da lui, lo vide, in maniera chiara e semplice, reale come un lemure ubriaco, e non ebbe dubbi, neanche uno, perché capì subito chi aveva di fronte: l’ultimo uomo.

Era proprio come lui. Vestito uguale. Giusto un po’ più magro e un po’ più stanco. Nessuno dei due era capace di parlare e di comunicare qualcosa all’altro. Però fu chiaro a tutte e due l’importanza del momento. Il primo e l’ultimo uomo, insieme, anche solo per pochi istanti. Qualche metro e chissà quanti migliaia o più anni di distanza. L’uomo – scimmia aveva tante domande da fargli così come l’ultimo uomo, ma l’unica cosa che riuscirono a fare, entrambi, nello stesso momento, fu quella di piangere. Un po’ come bambini quando sono messi davanti a delle cose più grandi di loro. Piangevano ma non erano tristi. L’umanità, in quell’assurdo momento, era bellissima. Fragile forse, spaventata, ma bellissima. Poi il tramontò sparì e con esso anche l’ultimo uomo.

L’uomo-scimmia rimase fermo a ripensare tutto ciò che aveva appena visto. Quando la notte avvolse il cielo, l’uomo-scimmia si asciugò le lacrime e cessò di essere annoiato. Aveva molta strada e molta responsabilità davanti a sé: perché non era più l’uomo-scimmia. Ora era un uomo, il primo uomo. Fu con quella sicurezza e quella responsabilità che, voltatosi per incominciare il suo viaggio e dar vita alla sua discendenza, venne sbranato da una tigre dai denti a sciabola avvolta in tutt’altro tipo di pensiero filosofico.

Poco prima di spirare, l’uomo – e dunque tutta l’umanità – ritornò con la mente a tutto quello che aveva visto prima durante il tramonto. “Peccato” pensò “mi sarebbe piaciuto tanto provare la felpa a zip”.