venerdì 22 Novembre 2024

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Fuori il mondo come va?: Il respiro dei vecchi

Raccontiamo l’attualità con una canzone

Adoro i vecchi. Lo so, magari altri hanno altre perversioni nella vita. Io ho questa: adoro i vecchi. Certo, avrei potuto dire “adoro gli anziani”, così da essere più gentile e compassionevole, oltre al sentirmi riparato da attacchi infervorati di una certa intelligenza con la puzza sotto al naso e, non da escludere, con l’alopecia sulla testa. Ma le parole sono forme e se noi non le nominiamo correttamente, ecco che si frammentano, si liquidano e si perdono, nell’immenso polverone di ovvietà che dimorano nei talk show televisivi, nei lungomare delle spiagge e, ahimè, anche negli articoli giornalistici. A parte il mio, of course. Partiamo quindi da una domanda. Cosa vuol dire essere vecchi?

La risposta sembra ovvia: prima sei giovane, poi sei vecchio. Ragionamento arguto, facilmente prossimo alla tesi: prima sei un pollo, poi sei un McNuggets, con un certo decadimento nei sensi nel primo, e un’ottima acquisizione di gusto nel secondo. Chi l’ha detto che i giovani diventino vecchi? Mal che vada diventano anziani, oppure cinici disillusi. Tutti invecchiano, ma essere vecchi, beh, quello è un onore che spetta a pochi. Perché non è solo questione di età o di malattia: è più che altro vivere il mondo con uno specifico respiro. Tu respiri per tutta la vita, forse in maniera diversa a volte, ma difficilmente, a parte quando hai il raffreddore, ci farai caso. Poi d’un tratto, ti accorgi che il tuo respiro si fa flebile, timido e delicato. Si poggia lentamente sul labbro superiore e sfiora delicatamente i peli dei baffi, quasi ad elencarli uno ad uno, per poi dissolversi attorno come un alone di un profumo. Le case dei vecchi devono essere piene di quell’alone lì.

Io, che non sono vecchio, ho scoperto tutto ciò all’età di 8 anni. Camminavo lungo il lago, con la mano, e buona parte dei miei sogni e del mio futuro, appesa alla mano ferma e paziente di mia madre, quando lo vidi: il mio primo vecchio. Aveva di fianco a sé tre o quattro libri di fantascienza, e oltre a quelli, dei capelli molto corti e degli occhi esageratamente enormi. Chissà quanta vita si può vedere con quegli occhi così grandi. Mi avvicinai un po’, con quell’ingenuità e curiosità classica dei bambini, ed eccolo lì: il respiro. Era proprio un respiro di un vecchio. È un respiro che lo riconosci solo se ce l’hai o solo se sei un bambino curioso. Ecco perché nonni e nipoti vanno così d’accordo. Di fondo a quel suo gesto, una musica. Una musica dolcissima e senza tempo. Sulla mia schiena, brivido di poesia: Fabrizio De André.

Non che ci fosse veramente, quella musica lì, ma se ci fate caso, nella vita dico, ogni canzone e musica si intrufola nei meandri dei vostri ricordi e si sedimenta in una specifica scena e da lì non si toglie più. Con quel vecchio, su un lungolago qualsiasi, e con la mano nella mano di mia madre, nell’acqua risuonava “Canzone per l’estate”.

Non lo saprà mai De André, ma vorrei dirgli che se fosse per me, questo articolo lo fermerei qui, e pubblicherei tante righe bianche, che sarebbero la recensione a quel suo genio assoluto, quella sua sfrontatezza ed esattezza nel dire le cose.

Dato che, però, sarebbe anche un modo di far imbestialire il direttore di questo sito web (del quale abuso già molto della sua pazienza), le righe le scrivo lo stesso per dare una quantomeno degna spiegazione nell’inserimento di un gigante – De André, non io – in un articolo scritto da un punticino – io, non De André.

Canzone per l’estate è un pezzo assurdo, non c’è veramente altro termine per definirlo. Tu l’ascolti e vorresti piangere, non sai neanche bene per cosa ma sai che lo vorresti. Vai tu a capire. Dentro quel testo, c’è tutta la vecchiaia di qui vi ho parlato prima. Tutta quanta.

“…con il tuo collezionismo
di parole complicate…”

E ancora.

“…la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente
la tua coda di ricambio
le tue nuvole in affitto
le tue rondini di guardia sopra il tetto…”

E ancora.

“…col tuo freddo di montagna
e il divieto di sudare
e più niente per poterti vergognare…”

Notate bene. Sono parole, ovvio. Ma è anche un respiro. Quel respiro. Quella sensazione che Gabriel Garcia Marquez ha riassunto così bene in così poche parole: “Il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine” Riguardate le parole di De André: dice questo. In forma ancora più poetica e ancora più bella. Invecchiare fino ad essere vecchi. Chissà quando ci è dato di saperlo, a noi comuni mortali.

Di convinzioni del genere, qua su questa terra, non sappiamo bene cosa farcene. MI tengo dunque stretto il ricordo di quel vecchio sul lago, e di quel suo sguardo, con quegli occhioni giganti, verso di me. “Cosa guardi” sembrava chiedere la sua faccia. “Un vecchio” sembrava rispondere la mia. Lui ci pensò un po’ e poi fece un cenno con la testa che potrebbe significare “Ho capito”, ma anche “Va al diavolo”.

Dato che scelgo la prima, sorridemmo entrambi e fu quella l’ultima volta che i nostri sorrisi si incrociarono nella vita. Adesso, in questo preciso momento, me lo immagino ancora là, come un uccello sul ramo, felicemente ignaro del fatto di essere l’unico lettore di fantascienza vecchio (con occhi davvero grandi) del mondo, ad essere finito, questa settimana, su Recensiamo Musica.