Raccontiamo l’attualità con una canzone
Non è che io abbia ambizioni o desideri di celebrità, tutt’altro. È solo che a volte il mio sguardo casca su qualcosa di davvero strano e ammirevole, regalandomi così un po’ di sana altezzosità e qualche riga da buttar giù in questa mia rubrica. Fu così che l’altro giorno incombei in una grossa e importante scoperta capace, se spiegata bene, di illuminare le menti di tutte le generazioni a venire. Ma come ho già detto, non nutro desideri di celebrità. Perciò la scriverò un po’ come capita. E così sia.
Ero su un lago e si sa che sul lago, l’autunno, si stende con calma e piacevole lentezza, come una coperta delicatamente posata su un bambino che dorme. Deve essere per quella nostalgia che emana, o quel ritorno incessante che hanno le foglie di cadere sulle onde scolorendosi e ritornando tutt’uno nella terra cercando il seme che li ha generati. Ma non era l’autunno nei miei pensieri, né le foglie e la loro catabasi. Erano i sassi.
Guardavo alcuni bambini lanciarli nel lago e mi è venuta in mente quella canzone di Jovanotti a proposito di sassi, che forse, chissà, gli è venuta in mente guardando la stessa scena che stavo osservando io. La canzone è Le tasche piene di sassi, ovviamente.
Non so voi, ma è da quando sono nato che nutro una spettacolare ammirazione riguardo al gesto semplice, genuino e profondamente esatto che abbiamo noi uomini nel tirare nell’acqua un piccolo frammento di pietra. Rimango sempre incantato, non ho mai ben capito perché. Ero ancora lontano dalla mia scoperta ma, lieto della visione, spostai lo sguardo verso i cigni e le anatre. Sono momenti strani, difficili da spiegare, ma c’è stato un attimo – immaginato o realmente accaduto, chissà – in cui non si riusciva più a distinguere se le onde fossero prodotte dal muoversi delle anatre o dal lancio dei sassi caduti in acqua. Vi prego di non prendermi in giro. Ci sono pittori che con immagini ben meno poetiche hanno tirato fuori alcuni dei quadri più belli dell’800. Chiedete a Massimo D’azeglio se non ci credete.
Ed ecco che lì ho capito una cosa. Cioè che noi uomini abbiamo sbagliato tutto, fin dall’inizio. Fin da quella scelta scellerata dei nostri antenati, ancora poco geneticamente formati, di uscire dall’acqua e andare a cercare fortuna e felicità sulla terra ferma. Mi alzo in piedi e a gran voce e senza paura dirò queste sacre verità: baggianate tutte le teorie di Voltaire sul mito della proprietà privata! Al diavolo tutte le fesserie sul mito dell’oro e sulla civiltà perfetta. Tutto il casino è nato lì, quando abbiamo deciso che al posto della profondità degli oceani, preferivamo la superficialità sulla terra. Mi vedo già gli scienziati e gli evoluzionisti da ogni parte del mondo inveire contro questa mia tesi, forse non specificamente professionale, ma sinceramente e poeticamente istintiva. In mia difesa dirò a codesti dottori che non mi illudo certo che anche nell’acqua noi umani non avremmo trovato un modo geniale per ucciderci a vicenda, per tenere prigioniero qualche scomodo e reazionario individuo, magari crocifiggendo qualche pesce se avesse professato che volersi bene non è poi una cosa così brutta in fin dei conti. Noi umani siamo fatti così, sia che respiriamo col naso, sia che respirassimo con le branchie. Ma in nostra difesa abbiamo anche un talento smisurato nell’approcciarci alle cose che non capiamo. Di fatti, ogni giorno milioni di bambini prendono un sasso e lo lanciano su una distesa d’acqua, ridendo, senza sapere perché. E i loro genitori si commuovono, senza conoscerne bene il motivo; o i più sbuffano, perché si annoiano e sono stufi marci delle domeniche pomeriggio passate al lago piuttosto che davanti alla televisione, ma di quelli non parliamone. Ogni giorno qualcosa che non capiamo ci strappa un sorriso, un’illogica allegria. Durerà anche poco, ma intanto arriva, e guai a non accoglierla. A me è accade ogni volta che guardo la gente tirare i sassi nell’acqua. E forse ora capisco anche perché.
Credo sia per quell’effetto che ha l’acqua di agitarsi quando qualcosa la colpisce. Tutto si muove, tutto si nutre di quel movimento, per poi ritornare, calmo e immutabile, come è sempre stato. È una cosa affascinante. Ed è ancora più affascinate accorgersi che questo, nella nostra vita di tutti i giorni, non accade. L’aria rimane aria. Il posto dove viviamo, tira che tira, rimane quello. Questo fa sentire soli, noi anime povere. Sapere che per ogni cosa che faremo, il paesaggio del mondo rimarrà comunque pressoché quello. Pensate invece vivere nell’acqua, consapevoli che ogni movimento cambierà la tua posizione e, anche se per un solo istante, l’intera posizione di tutta l’acqua intorno. Un po’ come se il mondo sapesse del tuo movimento, sapesse che tu sei dentro di esso, sapesse che anche tu vuoi la tua fetta di felicità. Elettrizzante, no? Altrimenti Jovanotti non avrebbe mai saputo scrivere frasi come queste.
“Volano le libellule
Sopra gli stagni e le pozzanghere in città
Sembra che se ne freghino
Della ricchezza che ora viene e dopo va
Prendimi non mi concedere
Nessuna replica alle tue fatalità
Eccomi son tutto un fremito ehi”
Così noi ci accingiamo sulle spiagge, noi lanciatori di sassi. Li cogliamo da terra come sacri ornamenti o fiori maturi e proviamo lo stesso slancio e potenza provata dal David di Michelangelo. Poi scocchiamo il colpo, e cominciamo a ballare, sì, ballare sull’acqua. Finiamo poi per non essere neanche più lì, sulla spiaggia. Diventiamo fisicamente quel sasso, prima pesante sulla nostra mano, ora leggero e rapido sull’acqua. Che dolcezza, quel sasso. Destinato a finire nelle profondità più buie, ma con l’energia di volare, colpo dopo colpo, sfidando la forze di gravità, il cinismo e la pesantezza tutta della vita. È una cosa che insegna molto, questa. Non ho ancora capito bene cosa.
Ma ho tutta la vita e molti articoli ancora da scrivere per capirlo. E ancora molti rimbalzi sull’acqua prima di cadere nelle profondità. Sembra un’articolo cupo e pesante come un sasso che cade; e invece mi sento leggero e libero come una piuma che balla.
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