Raccontiamo l’attualità con una canzone
C’è una contraddizione esplicita che sarà di sfondo ad ogni mia parola di questo mio articolo. Come ben si può notare dal titolo in grande, che avete cliccato per entrare in questa pagina, la rubrica intera si occupa (o si dovrebbe occupare, quando la mia obbedienza alle regole lo permette) dei fatti di cronaca che da bocca a bocca, diventano dei veri e propri argomenti di dibattito pubblico. Capite, dunque, bene il mio disappunto nel prendere questo lavoro e cercare di trovare qualcosa da raccontare, quando in realtà ciò che è successo nella settima scorsa è poco o niente.
Un mondo che, senza troppo lamentarsi, si è lentamente fermato. Come una corda legata che senza troppi perché, decide di allentare la presa. Perciò uno spettacolo (possiamo chiamarlo così?) di immobilità: milioni di persone chiuse in casa, come se potesse esserci un mondo senza lavoro, senza scuola, ma solo unito da una casa e dalle persone che vi ci abitano.
Anch’io, come molti di voi, sono stato nullafacente per una settimana. In questo clima paradossale di paura e pregiudizio, si mescola una certa poesia di fondo: una sensazione nuova, quasi sperimentale. E la domanda che avrà varcato qualche mente affina sarà stata: e se fosse così per sempre? e se non ci fosse più lavoro, più urgenze, più stress, ma solo giorni che si trascinano per arrivare alla fine?
Nelle strade deserte della mia città echeggiava una musica lontana, capace di riempire tutto quel vuoto creato da quel paesaggio immobile, quasi fosse un quadro verista dell’800. Scrivendo questo articolo ho capito di che canzone si trattasse: Battere e Levare, di Francesco De Gregori. Non vi illudiate, non ho neanche uno straccio di risposta sul perché di questo titolo bizzarro e criptico. Del resto provo una certa compassione per chi legge questi articoli cercando una risposta (lasciando dunque intuire che provo non poca compassione per il sottoscritto). Ma del resto questo canzone è di una chiarezza e facilità decisamente insolita per il cantautore romano.
Narra di un uomo che cammina, probabilmente da solo, e si sofferma a domandarsi il perché dell’agire quotidiano del mondo e dei suoi abitanti. Sai che novità, mi direte voi. E posso darvi ragione, se non che quello che canta è niente di meno di De Gregori, quindi chino basso e ascoltare.
“Ma non lo vedi come passa il tempo?
Come ci fa cambiare?
E noi che siamo come cani.
Senza padroni”.
Una freccia dentro al cuore, sinteticamente lapidario. In quattro righe riuscire ad esprimere un’idea di mondo e anche una sottile coerenza con quello che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo oggi. Ed è tra la lettura di un libro, l’inizio di una serie televisiva, una chiacchierata con il padre o una chiacchierata con il figlio nel caso foste il padre: tutta questa libertà che, nel ritmo forsennato e caotico della routine, è il nostro miraggio più soave. Eccolo, tutto a un tratto, lì, davanti a noi. Anzi, ci siamo proprio dentro: liberi.
Ed è lì, proprio mentre il corpo si rilassa, le gambe si stendono, gli occhi si chiudono, lì, proprio in quel momento dove vorresti staccare con tutto e tutti, in quel momento, la mente vola. E vola verso cime altissime, laddove si insinuano le domande che più sono profonde nel velo della nostra miserabile/gloriosa (sta a voi deciderlo) esistenza. E non c’è neanche troppo bisogno di dire che è estremamente facile perdersi. Come sto facendo io in questa parte finale dell’articolo. Ti prego Francesco, illuminami tu, fammi ritrovare il punto del discorso.
“Vedo cadere questa stella e non so più
cosa desiderare.
Lo vedi, siamo come cani.
Di fronte al mare”.
Ho detto prima che provo compassione per chi cerca delle risposte leggendo questi miei articoli. In realtà provo, oltre che invidia, molta stima per chiunque cerca di rimettere a posto il mondo, incominciando dai pensieri nella sua testa. Scegliendo di credere ancora nel bello, ancora nel fascino, anche se là fuori tutto è fermo e freddo. Del resto, se siamo veramente cani davanti al mare, fragili e abbandonati con in mano nient’altro che la nostra ancor più fragile libertà, non ci resta almeno che ammirare questo panorama che è in fondo il cuore, affanni e sogni compresi, del cuore umano.
Fate un po’ voi, ma a me sembra un panorama magnifico. Non so bene perché. Anche se, come dice De Gregori:
“E tu lo sai
che io lo so
e quello che non so lo so cantare”.
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