venerdì 22 Novembre 2024

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Fuori il mondo come va?: L’osservatore

Raccontiamo l’attualità con una canzone

Camminavo tra le facce e i pensieri della mia città, ignaro di cosa avrei scoperto e di chi avrei potuto incontrare. Camminavo con le mani in tasca e con il sorriso rinchiuso in un angolo nascosto della bocca. Ci sono momenti in cui tutte le luci sembrano allontanarsi gradualmente dalle nostre strade ed è inutile sforzarsi di raggiungerle o di cercarne altre. Piuttosto è cosa buona allontanarsi assieme ad esse, rinchiudendosi in una soffitta buia e fredda impenetrabile al mondo esterno, ma che comunque ha sapore di casa.

Ci vuole un po’ di narcisismo, un tocco di arroganza, ma ecco che ci si sente subito enormi: tu con la tua tristezza e il mondo intorno con la sua stupidità. È chiaro che è un gioco che è destinato a durare poco, altrimenti il passo per diventare patetici è breve. Però, per quei momenti, non è male essere un gradino sopra agli altri, sopra il mondo, sopra te stesso, se qualcuno sa cosa vuol dire.

Arrivai a destinazione e ordinai le mie piadine. Mi dissero di aspettare fuori e io assecondai la richiesta. E così mi misi a guardare.

Fredda e buia, la mia città. Ci sono queste strade nascoste dalla piazza, dalla chiesa e dallo sguardo dai commercianti aperti. Sembrano consumarsi, su queste strade, la vera identità delle persone. Mettevo a fuoco i passanti cercando qualche dettaglio che rincuorasse il mio cuore. Ogni istante era una fotografia. Dalla coppia di innamorati che camminavano stringendosi le mani. Il bambino che faceva un po’ il buffone per far ridere genitori e amici. Il quarantenne in camicia che parlava al telefono di lavoro alle 8 di sera come se quella chiamata dovesse sentirla il mondo intero. E poi chi si bacia, chi sorride, chi si annoia, chi cammina senza meta, chi cammina solo per arrivarci. Chi si ferma, chi ha fretta, chi cerca qualcuno e chi non ha nessuno da cercare.

Impazzisco sempre per questa cosa. L’osservare, dico. Mi ha sempre entusiasmato cercare di capire i segreti del mondo che mi circonda semplicemente osservandolo. Sarà che dei quadri capisco poco, sarà che nei film a volte mi sembra di perdere qualche importante segreto, ma nelle persone mai. Guardarle e osservarle come si muovono in questo strano mondo mi ha sempre ispirato una grande sete di libertà. Se mi capite, bene, altrimenti vuol dire che almeno voi siete normali.

In ogni caso. Visto che le piadine tardavano ad arrivare, ho fatto un’altra considerazione. Più guardavo, intrufolandomi nelle pieghe e nelle sfumature istantanee dei passanti, e più mi rendevo conto che in realtà stavo solo cercando me stesso. Già. È strano da spiegare. Era come se mi immaginassi davanti a me uno specchio e volessi trovare un punto in cui effettivamente potevo essere riflesso.

Perché il bambino un po’ buffone non dovrebbe avere l’antidoto per regalarmi un po’ di serenità? Perché la coppia felice non può consigliarmi come ci si può amare senza soffrire? Chi sei, passante in camicia e telefono, per parlare di lavoro il sabato sera con quel sorriso a 36 denti? E vedete, questa è una classica cosa da osservatori.

Gli osservatori guardano tutto, indagano in ogni sentiero, ma quello che cercano, alla fin fine, sono sempre loro stessi. Di fatti, gli osservatori, noi non li notiamo mai. Sono sempre loro che ci studiano, che ci chiedono, che ci cercano. Noi camminiamo dritti per le nostre strade, badando poco a noi stessi, figuriamoci degli altri. E loro rimangono lì, fermi e pensierosi. Chissà quanto abbia dovuto guardare il mondo Lucio Dalla, con quei suoi occhi tristi e quel suo cuore grande, per poter scrivere una canzone come Piazza grande.

E tra i gatti che non hanno padrone come me, il rischio è quello di diventare sempre più piccoli. Inghiottiti, poco a poco, da tutte quelle domande che non hanno un volto, da tutti questi volti che non hanno nome, da tutti questi nomi che sono come macigni dentro l’anima.

Inghiottisci tutti gli osservatori, o mondo! Annebbiali tutti, metti fine a questo loro indugiare gli altri senza meta. Non lasciarli soli e abbandonati per le strade di queste città fredde e umide. Queste e altre cose pensavo quando sentii chiamare il mio nome. Mi girai e non trovare risposte alle mie pene, bensì quattro piadine per la mia fame.

Così me ne andai e dell’osservatore che abitava in me, non ci fu più traccia. Mi ero immerso di nuovo nelle file della città. Anonimo e dispersivo, come tutti gli altri. Camminavo, con le mani in tasca e con il sorriso rinchiuso in un angolo nascosto della bocca.

Camminavo, ma un ultimo pensiero mi assalì prima di andarmene. Che ne è di tutti gli osservatori? Di tutti quelli che cercano risposte nella mia camminata, nel mio guardare le stelle con occhi tristi, del mio passo goffo e ridicolo?

Osservatore, non ti riesco a vedere, ora. Chiedo allora al lettore, qui vicino e distante da me, di dargli una carezza a quell’osservatore. Che a modo suo ne ha bisogno, che a modo nostro ne abbiamo bisogno tutti.