Raccontiamo l’attualità con una canzone
Una delle cose più strane che si scoprono quando si superano i vent’anni è questa: l’importanza dei gesti inutili. Lo noto in tutti i miei coetanei e compagni di questo viaggio. Non è che siano cose che si vedano chiaramente, è chiaro; ma bisogna ammettere che se uno ci presta bene l’occhio, va a finire che poi se ne accorge. I gesti possono essere molti: a partire dalle parole. Diventano vere e proprie pietre che hanno la capacità di far crollare tutto il mondo, ma possono essere anche ali capaci di farti fluttuare nei sentieri sempre infiniti dei sogni. Diamo qualche esempio all’esigente lettore. Provate a pensare la prima volta che avete detto o sentito la famosa frase “ti amo”. Prima dei famosi vent’anni (data ovviamente simbolica, per certa gente può arrivare sia prima sia dopo. Generalmente per me, dopo.) non è che una delle tante frasi dette per sembrare grandi, per giocare con l’età e con quei piccoli semi di carattere dentro il nostro corpo che abbozzano dei primi segnali di sentimenti. Uno la dice, la sente e la ripete, senza che mai si renda conto di averla detta, di averla sentita o averla ripetuta. Poi tutto ad un tratto, eccola che detta da quella persona lì, in quella situazione lì, in quel modo lì: fram. La vedi: la frase, il gesto. La percepisci in tutta la sua essenza, la senti dentro di te; come se finalmente si fosse liberata di ogni sorta di interpretazione e romanticismo bieco. Nuda, totalmente. La frase, non la persona che te la dice. Quello è un altro discorso. Bello, ma comunque un altro discorso.
Provate anche a pensare al primo “ti odio” o alla prima volta che avete detto “grazie” sentendolo veramente, e non come se stesse ricevendo un regalo sgradito. Ma non solo le parole: anche gli abbracci, i baci, le pacche sulle spalle, la mano nella mano. Gesti che eravamo abituati a gestirli immagazzinandoli e sistemandoli nel reparto delle cose mielose, e poi ecco che diventano segni indelebili della tua memoria, del tuo vero essere e di quello che sarai, un domani non tanto distante da oggi.
A me ne è capitato uno – di questi gesti – pochi giorni fa. Stavo guardando i vari libri sparsi in casa mia e ho deciso di organizzarmeli e sistemarli una volta per tutte. Alcuni con lo stesso autore, altri per grandezza, altri per bellezza. Una logica dietro molto più difficile a spiegarsi che… no beh, anche a farsi non è poi tutta questa passeggiata. La questione, in soldoni, è questa. Appena ho finito di sistemare tutti i miei libri, ho fatto un passo indietro. Poi un altro, e un altro ancora. Poi il letto mi ha impedito, bloccandomi il piede con il suo rigido e poco confortevole legno, di farne un altro. Così mi sono accontentato della posizione limite che potevo avere e sono rimasto in silenzio a guardare la mia piccola ma dolce libreria. Chi ha molti libri in casa sua capirà di cosa sto parlando. La meraviglia, l’orgoglio e la soddisfazione di averli lì, davanti a te: tutti i tuoi libri. Ovviamente non tutti, perché qualcuno l’hai prestato in giro, L’altro chissà dove l’hai messo, Chissà se l’avevo comprato poi? – però, eccoli lì.
I tuoi libri, i tuoi racconti, le tue avventure travestite in inchiostro celate dentro migliaia e migliaia di pagine. Quello è stato il mio gesto: guardarsi allo specchio, senza specchiarsi veramente allo specchio. È stato come se dopo un lungo viaggio mi fossi fermato a bere e, sporgendomi nell’acqua, avessi visto il mio riflesso; e in quello sguardo ho visto tutto me stesso. Quello alla partenza, quello durante gli ostacoli, quello che proprio non voleva saperne di continuare. E anche quello fermo lì, in quel momento, al di là dell’acqua.
Come faccio a esprimere a parole tutto questo, cari lettori? Non credo posso, purtroppo. O forse non ancora o non così bene.
Dunque ho pensato ad una cosa. Ho pensato che da qualche parte ci dovrà essere un pazzo, un uomo folle ma istruito, a cui sarà venuto in mente di leggersi tutti i libri del mondo. Così da specchiarsi allo specchio ogni volta che guardava i suoi libri. In modo che ogni volta che si fosse sentito perso o solo, gli sarebbero bastate qualche pagina, qualche riga sottolineata qua e là, e subito il sole sarebbe tornato a splendere dentro i suoi occhi. L’ho immaginato seduto di fronte a tutto quel Paradiso di storie e di racconti che noi umani non abbiamo mai smesso di tramandarci. Avrà avuto come una musica di pace, di bellezza in testa. Una bellezza come quella di Giovanni Pasiello nel suo Piano Concerto No. 3 in A Major: I. Allegro.
Che gesto folle, pazzo e bellissimo: guardarsi dentro e sentirsi addosso tutta l’umanità, tutto il bene e il male, tutta l’atrocità e la misericordia che abitiamo dentro il nostro corpo. Il bisogno di appartenere a qualcosa, riconoscendosi simili con i propri simili: l’esigenza di sentirsi umani.
Deve essere come in un sogno, per l’uomo che lesse tutti i libri del mondo, sempre che sia veramente esistito o se mai, un giorno, esisterà. Ma i sogni sono quei motori che tendono a colorare le cose sotto un’altra luce, come gli umani in belle persone, come il mondo in un bel posto, e come questo articolo in un bell’esempio di sobrio autocompiacimento per la propria libreria.
Lo so, lo so bene che è impossibile che un uomo riesca mai a leggere tutti i libri del mondo. Purtroppo lo so. Ma almeno lasciati sognare. Del resto: “Se un uomo sognasse di trovarsi in Paradiso e gli venisse dato un fiore come prova che la sua anima è stata lì, e al suo risveglio si ritrovasse con quel fiore in mano – cosa accadrebbe?”.
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