venerdì 22 Novembre 2024

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Fuori il mondo come va?: “Mi fa male il mondo!, l’incendio in Australia, Gaber e Giuseppe

Raccontiamo l’attualità per mezzo di una canzone

E Giuseppe? No, scusate. Giuseppe è un mio amico che non vedo da un sacco di tempo. Lo vedevo praticamente tutti i giorni. Ho saputo che è stato male, che ha avuto dei casini, gravi, anche con la moglie. Allora ogni tanto fermo qualcuno e gli chiedo: “scusa, ma come sta Giuseppe?”.

E lui: “Vedi… il capitalismo nella misura in cui è costretto a reprimere i focolai si scontra con le sue contraddizioni interne”.

Si, è giusto… ma io adesso dicevo Giuseppe, ho saputo che…”.

Ah – fa lui – ormai lo sanno tutti, sì lo sanno tutti. Il petrolio ha un enorme peso sulla guerra tra Stati Uniti e Iran”.

Sì, sono d’accordo, ma io adesso dicevo Giuseppe, Giu…”

Ah, ma allora tu non hai seguito, è chiaro, non hai seguito. In Australia siamo già a un miliardo di animali morti, ripeto, un miliardo! Non contando ovviamente i cinquecento milioni di feriti. E qui invece si parla solo di Ibrahimovic che fa gol nonostante abbia quasi 40 anni!”.

Ma scusa, non era un tuo amico?“.

Chi, Ibrahimovich?“.

Ma no, Giuseppe!“.

Ma che importanza vuoi che abbia Giuseppe – mi fa lui, – di fronte all’Iran, all’Australia? Io soffro per altre cose. Mi fa male il mondo!“.

Gli fa male il mondo? A me fa male Giuseppe, la moglie, il lavoro…“.

E sotto scroscianti applausi, si spegnevano le luci, ci si alzava in piedi e allora, e solo allora, Giorgio Gaber faceva il gesto dell’inchino, pronto ad esordire con uno dei suoi monologhi/canzoni più efficaci e feroci di sempre: “Mi fa male il mondo”.

Con Giorgio Gaber e con Luporini si ha vita facile, ovunque peschi, peschi bene. In questa canzone, però, c’è qualcosa di ancora più forte, più aggressivo e impressionante. Cerco di spiegarmi meglio. Ho avuto la fortuna (o sfortuna, decidete voi) di andare alle terme, l’altro giorno. E lì, la giostra dell’apparenza umana ha il suo spazio garantito. Corpi puliti, braccia e gambe rilassate, respiri lenti e profondi, passi calmi di persone che non sanno esattamente dove andare ma ciò non reca loro alcun disturbo. Tutto, a conti fatti, bello. Tranne le facce.

Le facce erano il riflesso di tutto ciò che neanche le terme potevano mascherare. Facce stanche, facce appesantite, facce timide, facce a disagio, facce finte, facce che guardano, facce che ridono ma sotto sotto piangono, facce dimenticabili, facce sole, facce senza vergogna, facce piene di sfiducia, facce senza slanci, facce depresse, facce accontentate, facce che fanno male. Come è possibile ciò? Veniamo trattati coi fiocchi: con massaggi, con profumi, creme, ma ancora quel malessere non se ne va.

Mi fa male più che altro credere
Che sia un destino oppure una condanna
Che non esista il segno di un rimedio
In un solo individuo che sia uomo o donna

E allora rimaniamo in questo limbo tra il tutto e il nulla. In altalena fra il cielo e il mare senza appoggiare su nessuna delle due. Sospesi tra l’ansia di un incendio che sta rovinando un intero paese e la monotonia frenetica della nostra routine. Tra il nostro amico Giuseppe e l’incombente destino del pianeta terra.

I miei pensieri vanno ovviamente all’Australia, alla sua splendida terra e alle sue millenarie tradizioni. E ciò mi fa davvero arrabbiare. L’incendio, ovvio, ma soprattutto questo vuoto che non si riempie mai. La tragedia vera della nostra epoca. Niente ci fa davvero così tanto male da indignarci come invece, si dovrebbe. E io sono il primo, lo ammetto, a lamentarmi tanto (come ben si può vedere da questi articoli) ma a risolvere ben poco. È tutto così vicino, così immediato. Ma tanto, troppo, distante dai nostri sentimenti. Il fuoco che divora l’Australia che si contrappone alla piccola scintilla di passione e di vera rabbia che portiamo in serbo al cuore.

Ci stiamo abituando ad un mondo troppo grande, dove nulla ci appartiene e dove tutto può potenzialmente farci male: una serie tv finita male, una libreria indipendente che chiude, un teatro semivuoto, un centro commerciale gigante. E se fosse ancora qui Gaber lo griderebbe certo meglio di me, come l’ha già gridato più e più volte: qui l’uomo muore!

Non voglio essere apocalittico, dovete credermi, ma a volte queste cose mi fanno troppo male e l’unico modo per capire e capirmi, è scriverle. Per ciò ritorno da Gaber, dalla sua rabbia colmata dal suo utopico sguardo verso un mondo che sa e può fare anche del bene. Siamo anime conciate male, piene di lividi e botte, stanche di guardare avanti e impaurite a guardarsi indietro. Ma sentendo di questo incendio e prendendo in mano tutta questa rabbia, si capisce, in fondo, di non essere totalmente soli.

Ma la rabbia che portiamo addosso
È la prova che non siamo annientati
Da un destino così disumano
Che non possiamo lasciare ai figli e ai nipoti

Qui l’uomo muore, ma c’è sempre tempo per salvarlo, per salvarci. Con tutta la rabbia e con tutto l’amore. Incominciano da chi crede ancora a questa utopia. Partendo da me, partendo da te. Partendo da Giuseppe. Partendo da noi.