Raccontiamo l’attualità con una canzone
Il Ping-pong. Una pallina che viaggia da una parte all’altra del campo. Quattro occhi (oltre quelli dei tifosi) a guardarla. Due racchette poco più piccoli di una padella da cucina. Un campo poco più grande di un divano da salotto. Il resto è spazio. Tanto spazio. E la pallina, statene certi, lo esplora tutto.
Questo è il Ping-pong. A giocarlo ci vuole un attimo, a capirlo una vita intera. Che in realtà non è neanche il suo vero nome. I più esperti nel campo lo chiamano Tennistavolo, ma è chiaro che se ti trovi con i piedi nella sabbia e con un oceano spalancato all’orizzonte, un nome come questo ucciderebbe ogni tipo di svago sportivo. Così qualcuno lo nominò più onomatopeicamente Ping-pong. E da lì in poi, tutti fuori dall’acqua e racchetta in mano.
A detta di ogni previsione, questo sport non nacque in Cina, bensì in Inghilterra. O meglio, dagli inglesi. Come ogni sport che si rispetti, le leggende della sua nascita sono molteplici. La più credibile narra di una giornata burrascosa in India, a metà del 1800, e degli ufficiali inglesi entusiasti di giocare a tennis. Il temporale gli impedì di divertirsi nella loro ora libera, così si rifugiarono nella loro ambasciata e presero un tavolo da cucina, un tappo di sughero, una retina per la frutta e due padelle. Il cuoco non l’avrà presa benissimo, diciamo.
Ma mentre la cucina si svuotava, il Ping-pong, di fatto, nasceva. E da lì in poi ne fece di strada. Spopolò in Inghilterra dopo la prima guerra mondiale, dove nacquero molti club e circoli privati, sopratutto nell’élite aristocratica ma non solo. Di seguito fu inserito come sport olimpionico e negli anni ’50 qualcuno in Cina vide, in quel tavolino con una rete in mezzo, una maniera molto pratica ed efficace per conquistare il mondo. Il dopo ve lo lascio immaginare. Le regole le conosciamo tutti. Colpisci la palla, la mandi oltre la retina, speri di colpire il campo avversario e aspetti il prossimo colpo. Facile no?
Rubo una frase da un comico francese di nome Coluche: “Il tennis e il ping-pong sono la stessa cosa. Solo che nel tennis sono in piedi sulla tavola“.
Ill Ping Pong, infatti, è un gioco che sa di assurdo. È forse l’unico posto dove non sei veramente lì, con tutto te stesso nel campo. Se ci pensate bene, ogni sport ha un perimetro di gioco che disegna il mondo dell’azione. Il Ping Pong invece ne disegna solo un passaggio, quello che sancisce tutto il movimento dell’universo attorno. Un universo composto da due giocatori che si muovono all’impazzata pur di tenere viva quella pallina. Giusto per darvi qualche dato: lo scambio più lungo mai effettuato nella storia di questo gioco durò all’incirca due ore. Esatto: due ore.
Uno potrebbe pensare alla noia estenuante di vedere due persone che si tirano la stessa pallina senza mai fermarla per così tanto tempo, come fosse una lunghissima discussione sullo stesso discorso.
Giocatori: Lui e Lei.
Battuta di lei:
Ma tu mi ami o no? (Ping), Certo che ti amo, però ti comporti in modo strano (Pong), Faccio così perché non mi ascolti più, ti sei chiuso in te stesso! (Ping), Forse è perché da tempo ti confidi solo con Gianni (Pong), Almeno lui mi ascolta (pallina che tocca la retina, ma scivola lentamente nell’altro campo. Ping), Oltre a portarti a letto, dici? (Tiro diagonale ben piazzato, pallina che va a toccare lo spigolo. Pong), Quello dovrebbe insegnatelo a te, che mi sa che hai bisogno di qualche ripasso ultimamente. (Risposta pronta, controbattuta sullo spigolo opposto. Ping), Si forse dovrebbe, almeno passerei un weekend in buona compagnia (presa scoordinata, pallina che si alza. Pong), Puoi farlo già da subito, me ne vado. (Schiacciata centrale e forte. Ping e punto partita).
Capite che due ore di partita così non sono niente. Quante partite di Ping Pong facciamo, tutti i giorni, nella luce dei nostri dialoghi, dei nostri pensieri e delle nostre scelte che riassumiamo in due semplici rumori? Del resto, a guardarli bene, non c’è poi tanta differenza nell’osservare il Si e il No, come un 1 e 2, o un Ping e un Pong. È sempre lo stesso sport. Come dice Rino Gaetano nella sua canzone Ping Pong.
Il tavolo da Ping-Pong è il sole immobile al centro dell’universo. La pallina è il motore che lo fa girare. È l’azzeramento del pensiero, non c’è sfumatura, non c’è poi chissà quale strategia. È azione, pura e semplice. Una danza di mani e braccia che si muovono nell’unico tentativo di mandare la palla di là, magari in un punto del campo scomodo. Ditemi se non fanno così gli umani in ogni discussione, in ogni sfida personale, in ogni rapporto di odio e amore.
Prendere a pugni il mondo e vedere come ti risponde. Con la consapevolezza che è il campo, con la sua geometria invisibile e le sue linee infinite, a decretare il vincitore, e mai la pallina. Perché nella pallina c’è del caos nutrito dalla precisione e dalla forza che gli diamo, dalla rabbia con la quale la cacciamo, dalla stanchezza con la quale la contrastiamo. Il tavolo invece è un’isola di mondo in una mare di spazio. Questo è il Ping-Pong.
Venitemi ancora a dire che è solo uno sport da spiaggia.
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