Raccontiamo l’attualità con una canzone
Fugge via, questo povero cuore. Si nasconde nei cunicoli, si ripara all’ombra degli ultimi stanchi raggi solari. Pesante e affranto, si trascina dietro come un vecchio derelitto, cedendo poco a poco ad ogni colpo del mare in tempesta. Ci si può chiedere dove e verso cosa stia scappando, ma di queste chiarezze neanche lui ne è a conoscenza.
Causa di questo dolore, noi possiamo solo ipotizzare, perché non lo possiamo vedere, il povero cuore. È ingabbiato in un corpo ingombrante che se lo porta via ovunque esso vada. Il corpo è animale. È crudele. Se ne frega se il cuore piange, se ha bisogno di spazio, se vuole solo un po’ di conforto. Il corpo prosegue la sua lunga strada fatta di binari costruiti nel niente. E il cuore aspetta.
Anche perché altro non può fare, il cuore. Aspetta, e come tutti quelli che aspettano, pensa. Pensa a cosa per chi stia scandendo tanti battiti al minuto. Pensa al perché per fare tanto ossigeno ci sia bisogno di così tanta anidride carbonica. Pensa se potrà mai trovare pace e libertà. Pensa al perché la gente si immagina il cuore come ad un semplice simbolo di speranza, quando in esso si racchiude tutta la tenerezza e la vergogna che il resto del corpo non vuole vedere.
Non è animale, il cuore. Il cuore è la tempesta che fa scappare gli animali. È la nuvola sottile che copre il cielo stellato. È il vento che porta via le lacrime trascinandole laddove nessuno potrà mai scorgerle. È bellezza nella disperazione.
Così piange, annacquando tutta l’anima che governa a suo modo il corpo ingombrante. Piange, ma non lo fa per lamentarsi, né per farsi notare. Lo fa perché si sente piccolo in un mondo troppo grande per lui, con emozioni troppo complesse, possedute da persone fragile da enigmi tortuosi.
Il cuore conosce il peso e la scoperta della sua tenerezza. È il solo custode di una verità illeggibile ad occhi altrui. A suo modo, regna in un’isola che non è ancora stata scoperta, o, se è sfortunato, che è appena stata abbandonata.
Vaga solitario nelle notte, soffermandosi sulle luci accese dei balconi. Inciampa sullo schermo piatto di un cellulare anonimo per ripercorrere poi lo stesso percorso. Scappa per trovare se stesso, a patto di ritornare più confuso di prima.
Sarà per questo forse che è stata scritta una canzone che fa da titolo a questo articolo: Povero cuore di Mobrici e Brunori Sas.
Dicono che ti senti così
Con un blocco alla gola
E un pianoforte come spalla
Eccoti qui
Non vuoi deluderli
Non vuoi deluderti
Ma non passa il dolore che fa
Lancia questo enorme cuore e portarlo altrove
Dagli da bere
Tienilo bene
Lancialo nel mare più profondo
E poi mettilo al sole
Se cerca una risposta, questo povero cuore, non riuscirò a donargliela. Se cerca pace e serenità, non potrò trovargliele. Non per cattiveria, sia chiaro. Ma perché siamo tutti poveri cuori, in fondo. Con la presunzione e il desiderio di farci un po’ di spazio, di aprire il finestrino e respirare un po’, di romperci a mille pezzi e farla finita, una volta per tutte.
Poi però l’articolo si deve chiudere, l’alba dobbiamo pure farla trovare al termine di queste notti. Così mi viene da pensare e da scrivere che c’è vita, in questo povero cuore. C’è una linea fra la disperazione e l’apatia che non è poi così tanto spessa. Unisce ogni pensiero, ogni nostalgia, ogni persona che ci manca. È una cosa che ho realizzato guardando un pezzo di un film che si chiama The Road.
È in inglese, ma il dialogo è pressappoco così.
“Papà! Ho avuto un incubo.”
“Se sogni cose brutte è un buon segno. Vuol di re che stai lottando, che sei ancora vivo. È quando sogni cose belle che devi iniziare a preoccuparti”
Oh, povero cuore. Tu fai soffrire, fai dannare questo ingombrante corpo, mandi in brandelli questo limitato cervello.
Oh, povero cuore. Sei davvero tutto ciò che mi fa sentire vivo, in questo mondo.
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