Raccontiamo l’attualità con una canzone
Più ci provo, più mi rendo conto che certe cose non capirò mai come funzionino. Ad esempio. Sei lì, tranquillo, pensieroso sui fatti tuoi e sui fatti degli altri, ed ecco che una semplice, normalissima visione, come una formica che sale su una foglia, come una nuvola che oscura la valle, o una bambina che piange su una panchina, una cosa da nulla insomma, invece ecco, vedi una cosa così, che chissà quante volte avrai già visto, ma chissà perché, in quell’esatto momento lì, mentre fuori la vita va avanti come nulla fosse, dentro di te, il tuo mondo crolla. Questione di un attimo. Fram.
Tutto ad un tratto ti balenano dei pensieri che esondano da tutte le parti… e così ti accorgi che forse non la ami più, che tuo padre in fondo non è poi così un mito, che l’università che hai scelto è una cazzata, che il tuo posto del mondo, ammesso che ci sia, è da tutt’altra parte. È un attimo. Fram.
A capire ste cose, si sa, si diventa matti. Infatti, bene o male, il tempo passa, con l’enorme vantaggio di assorbire tutte queste tetre visioni, capaci di mandar fuori di testa anche un cavallo. Sono dei puntini, queste visioni; il problema vero è che non te li scrolli più di dosso, poi, questi puntini. Si rimane incollati ad esse, come coi dubbi. E lì o fai dell’ironia o diventi matto. O scrivi articoli su Recensiamo Musica, come il sottoscritto.
Insomma, per farla breve, me ne sto lì, in macchina ascoltandomi una canzone di Lucio Dalla chiamata “Cosa sarà”. Fuori, un caldo bestiale, dentro, aria condizionata a palle e un semaforo rosso che mi invita molto poco cordialmente a restarmene fermo. Mi guardo un po’ attorno fischiettando a tempo la musica quando, senza preavviso, ecco il puntino. Non c’è il tempo di salvarsi. Non c’è modo di scappare. Appena realizzi è già tutto finito. Fram.
Stavano costruendo una strada, già, una di quelle che dovrebbero agevolare il traffico. Ma non è la viabilità del traffico che mi ha reso inquieto. Erano le facce, le facce degli operai. Facce scavate da chissà quante ore sotto un sole che non la vuole smettere di fissarli; occhi bagnati da lsudore e da qualche lacrima caduta qualche anno prima, rimasta appesa lì, non trovando posto migliore; labbra stanche e screpolate che se qualcuno da loro un bacio, un bacio solo, forse troverebbero le energie per sorridere a questa vita misera. Non riuscivo a non guardarli, giuro. Film, libri e canzoni per raccontare l’umano e poi te lo ritrovi lì, a due passi, in una domenica qualunque, su una strada qualunque, sotto un sole qualunque. Ma non era commiserazione la mia, nei loro confronti. Era commiserazione verso di me. Guardavo le loro facce, le loro mani, e mi domandavo quante strade avranno costruito quelle mani, su quanti chilometri si saranno piegate quelle schiene, quanti sospiri persi nel nulla affinché io potessi guidare su questa strada, questa strada di mondo. Chilometri di viaggi grazie a delle persone che non conoscerò mai, che non ringrazierò mai, che non amerò mai. Questi operai che torneranno a casa e avranno reso la mia vita più veloce, più agevole, ma a quale pro? Questo è il problema, caro lettore. Tutte queste persone che costruiscono strade e strade, per noi, per me, che tanto lo so già, che non so proprio dove andare, in questa vita troppo grande, in questa nostalgia troppo forte, in questo dolore senza volto. E quando ti avvolge un senso di colpa a cui non sai dare un nome, allora significa che qualcosa, in questa tua vita, è andato irreversibilmente a puttane. Come nella canzone di Dalla.
Che fa crescere gli alberi la felicità
Che fa morire a vent’anni
Anche se vivi fino a cento
Cosa sarà a far muovere il vento
A fermare un poeta ubriaco
A dare la morte per un pezzo di pane
O un bacio non dato
Oh cosa sarà
Che ti svegli al mattino e sei serio
Che ti fa morire ridendo di notte
All’ombra di un desiderio“
Nell’attesa che il semaforo davanti a me diventasse verde ho avuto la tentazione, una tentazione fortissima, di andare lì, da quelle facce di umani stanchi – quasi fossero appena state cacciate dall’eden – e di chiederlo, sì, chiederlo a voce alta, sapendo che se c’è una risposta in questo folle mondo, gli unici detentori, gli unici chela possedevano, dovevano essere loro. E allora anch’io, con le labbra screpolate, e con la schiena a pezzi, gliel’avrei chiesto: “ma la strada, sì, la strada mia, quella che seguivo tempo fa, dove è finita? Non è che potete costruirla voi, voi che di strade ve ne intendete, la mia, di strada che si è persa?”. Ma il verde del semaforo è poi scattato, e con essa la mia macchina, e dentro di essa le mie pene e le mie angosce. E il mio puntino.
Non mi prenda in giro, caro lettore; non sono deliri da uomo annoiato, questi, ma da da uomo perso, come molti di noi, in questo mare di strade. E sono strappi, questi, che sono difficilissimi ricucire. Il mondo oggi ha guadagnato una strada, ma in cambio io mi sono accollato un puntino che mi seguirà per tutta la vita. Mi tenga compagnia, caro lettore, perché ci sono troppe strade, qui, in questo nostro mondo, ma poche, troppo poche, le indicazioni per non perdersi.
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