Raccontiamo l’attualità con una canzone
Se la vostra curiosità non accetta ritardi nell’indugiare i propri misteri, in quel caso vi porterebbe a cercare, sulla fonte del nostro immenso e indimenticabile piacere (parlo ovviamente di wikipedia) la misteriosa provenienza riguardo questo titolo di articolo così profondo e quindi così lontano dal mio modo, frivolo e banale, di scrivere.
Rimanendo stupefatti dal titolo del libro di provenienza (no, questo non ve lo dico per cui andate su wikipedia e cercatelo voi) notereste che l’autore di questa frase è Gabriel Garcìa Màrquez. Non serve poi aggiungere che il libro è fenomenale, d’altronde ogni libro di Marquez lo è. La cosa affascinante è la modalità con cui si parla della vecchiaia. Uno sguardo tenero, senza pregiudizi, né cliché. Una vecchiaia che si manifesta alla fine con degli acciacchi fisici, poco prima con delle distrazioni nella testa e all’inizio con un cuore colmo di pesanti pensieri. Un libro che ti fa sorridere e poi ti abbraccia, dando senso a quelle lacrime che rimangono in bilico tra l’uscire e il rimanere. Se in questi giorni lo leggete, estrapolereste fuori frasi come queste:
“A partire da allora cominciai a misurare la vita non per anni ma per decenni. Quello dei cinquanta era stato decisivo perché avevo preso coscienza che quasi tutti erano più giovani di me. Quello dei sessanta era stato il più intenso per il sospetto che non avessi più tempo per sbagliarmi. Quello dei settanta era stato temibile per una certa eventualità che fosse l’ultimo. Malgrado tutto, quando mi svegliai vivo la prima mattina dei miei novant’anni nel letto, mi attraversò l’idea affascinante che la vita non fosse qualcosa che scorre come il fiume impetuoso di Eraclito, ma un’occasione unica di girarsi sulla graticola e continuare ad arrostirsi dall’altra parte ancora per novant’anni”.
Leggendo queste cose, ci si accorge sorridendo, di quanto ci si possa sentire piccoli e stupidi, scoprendo, con un piccolo accenno di invidia, di quanto invece si possa essere saggi e geniali. Per precauzione, come si può ben notare, mi sono messo inserito, senza pensarci troppo, nel primo settore. Ma siccome tu, caro lettore, ogni settimana ti prodighi in questa rubrica per sentir parlare del mondo e della musica che ascoltiamo per interpretarlo, devo decidermi ad arrivare al punto di questa introduzione squisitamente letteraria.
Con abilità lessicale più o meno gradevole, non volevo parlare, ancora una volta, di questa immobile situazione grottesca in cui tutta l’Italia è piombata come un sasso che precipita giù da un burrone senza vederne la fine. Volevo, invece, introdurre un cantante e un argomento a me molto cari, con la certezza che anche il medesimo cantante e il medesimo argomento, si sposino tra loro, con splendida armonia. Così come Marquez parla della vecchiaia nel suo libro (ve l’ho già detto, se volete il titolo, ve lo cercate, sù!) così anche Francesco Guccini ha saputo dare una sua chiara visione del tempo che passa in molte delle sue opere musicale. Quella oggi in questione è “Incontro”.
Ma se questa rubrica deve parlare dell’attualità e ricavare da essa suggestioni e riflessioni, può allora, in una situazione come queste, colui scrive, (cioè io) prendersi il lusso di parlare del tempo, come se non ci fossero cose più urgenti e paurose? La risposta è inequivocabilmente semplice: certo che sì.
Perché in questi giorni di immobile e dolce far niente, con tutto il rispetto dei poveri commercianti e piccoli imprenditori per cui va dato loro il più totale rispetto, tutti noi ci stiamo sentendo un po’ vecchi. Chi con un libro in mano, chi con un un serie tv da guardare, chi con una passeggiata al parco. Le città deserte e le case piene hanno trasformato, oltre che le nostre normali abitudini, anche la nostra concezione del tempo che passa: sia dell’arco della giornata, sia (per le menti più affini) dell’arco della vita.
Allorché balza alla testa una domanda: cosa vuol dire sentirsi vecchi? Un modo per scoprirlo è leggersi il libro sopra consigliato di Marquez, l’altro è, senza ombra di dubbio, aprire, con la giusta chiave, il grande patrimonio musicale che ci ha regalato Guccini. Fa rabbrividire il sapere che molti suoi pensieri furono di una maturità e di una eleganza coerentissima, in età molto giovane. Quando scrisse “Incontro” aveva solo trent’anni. Io ho ventidue anni ora e nonostante il mio ego sia sempre affamato, la sola idea di comparare il mio più acuto pensiero ad una sola delle frasi di Guccini di questa canzone, fa sicuramente ridere. A voi, al mio ego no. Giusto per capirci:
“La tristezza poi ci avvolse come miele
Per il tempo scivolato su noi due”.
Ma che mondo devi portarti dietro per dire a trent’anni una frase del genere? Un esattezza e una chiarezza disarmante. Appena l’ho sentita mi sono emozionato subito. (Menzogna, appena l’ho sentita mi stavo lasciando trasportare dalla bellezza della canzone. Oltre a saper scrivere, fa delle canzoni da Dio. Appena poi mi sono riguardato il testo, il mio pensiero è stato: “ah”).
“Cara amica il tempo prende, il tempo dà
Noi corriamo sempre in una direzione
Ma qual sia e che senso abbia chi lo sa
Restano i sogni senza tempo
Le impressioni di un momento
Le luci nel buio di case intraviste da un treno
Siamo qualcosa che non resta
Frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno“
L’idea di dover commentare e spiegare queste frasi sarebbero colmi di una pesantezza senza senso. Il senso è già li dentro, in quelle parole, in quelle canzoni, in quel modo preciso e poetico di vedere il mondo. Tornando al titolo di questa rubrica, caro lettore, siamo soli in questo mondo. Meno male che ci sono tanti artisti, (tra queste anche mia nonna, inspiegabilmente non riconosciuta tale), che riescono a regalarci una certa idea di mondo che, anche se solitario, è, forse per questo, magnifico. Fammi un piacere, caro lettore. Questi giorni assurdi sono destinati a finire e a lasciar dietro un ricordo frammentato di paura e libertà. Tu lasciati incantare, se non da queste brevi articoli, almeno da Guccini, da Marquez e da chiunque abbia avuto il coraggio e l’utopia di dar senso a dei dolori apparentemente privi di significato. Leggere libri, ascoltare musica. Non è molto alla fine. Ma se si riesce a farlo bene, a volte, può essere semplicemente tutto.
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