Raccontiamo l’attualità con una canzone
In una spiaggia che in realtà non esiste, con il cuore naufrago e solitario come le onde che gli bagnano i piedi, il pittore Plasson studiava al meglio come disegnare il suo ritratto più ambizioso. Si era fatto da tempo una certa fama e tutti i nobili di corte avrebbero pagato montagne d’oro per farsi fare un ritratto da lui. Il segreto dei ritratti di Plasson era molto semplice: capire gli occhi. Dentro gli occhi c’era tutto: le paure, le debolezze, le ferite, i sogni, le speranze, gli orrori e gli amori. Se si cattura e si ritrae il loro mistero, tutto il resto vien da sé.
Ma a Plasson, in quella spiaggia che in realtà non esiste, davanti al suo telo tutto bianco e con le onde che gli bagnavano i piedi, stava ritraendo il suo soggetto più difficile: il mare. Fu proprio lì, davanti al telo vuoto, che gli venne in mente quel dubbio: ma quali diamine sono gli occhi del mare? Quello stesso dubbio fu riportato ad un altro bambino, non molto tempo dopo.
“Le navi”.
“Le navi cosa?”
“Le navi sono gli occhi del mare”. Rimane di stucco. Questa non gli era proprio venuta in mente.
“Ma ce n’è a centinaia di navi…”
“Ha centinaia di occhi, lui. Non vorrete mica che se la sbrighi con due”. Effettivamente. Con tutto il lavoro che ha. E grande com’è. C’è del buon senso, in tutto quello.
“Sì, ma allora, scusa… E i naufragi? Le tempeste, i tifoni, tutte quelle cose lì… Perché mai dovrebbe ingoiarsi quelle navi, se sono i suoi occhi?”.
Ha l’aria perfino un po’ spazientita, il bambino, quando si gira verso Plasson e dice “Ma voi… voi non li chiudete mai gli occhi?”.
Di questi tempi, gli unici modi per affrontare questa quarantena si sono ridotte a due possibilità: stringere i denti facendo dell’ironia o sprofondare in un abisso di tristezza e solitudine. Con tutta la modestia che non mi appartiene, cerco qui di offrire una terza possibilità; nello stesso modo in cui Plasson, nel bellissimo “Oceano Mare” di Baricco, si domandava quali erano gli occhi del mare, mi soffermo su quale possibile musica possa “ritrarre” questo nostro periodo. Devo confessare che ci penso spesso, caro lettore, ma proprio non ne vengo a capo. Un momento del genere richiede un suono speciale, diverso da quello che sentiamo alla radio. Avverto che in tutte le canzoni che ascolto manca ancora qualcosa. O per meglio dire, sento che mancava ancora qualcosa, perché, in un modo assolutamente fortuito (che sono poi gli unici modi belli per scoprire le cose), posso ammettere di averla finalmente trovata.
Se come me serbate nel cuore il sogno di raccontare storie, il meglio che si possa fare è leggere e guardare ogni film che ti passa sotto il naso. È un sogno strano, lo so. Fu così che mi ritrovai a vedere un film che avevo visto molto tempo fa, ma di cui non avevo ancora, Dio mi perdoni, colto appieno la sua bellezza. Il film è “Master and Commander”. Inutile dire che è un film s-t-r-a-o-r-d-i-n-a-r-i-o. Attori, regia, sceneggiatura… cose di un altro mondo, credetemi. Purtroppo non ha avuto molto successo, cose che capitano quando esci nei cinema nello stesso anno in cui esce “Pirati dei Caraibi”. Film perfetto, girato in maniera sublime… ma nel momento sbagliato. Meccanismi di marketing, che ci volete fare… Rimane comunque un piccolo capolavoro a che se ne voglia a dire.
Il film ha una storia molto semplice: durante il periodo napoleonico, dopo essere stati attaccati e quasi annientati da una nave francese, il comandante della nave inglese, Jake Aubrey, interpretato da un fantastico Russel Crowe, decide di inseguire e distruggere quel comandante francese, alimentando, mano a mano che si avvicina al suo nemico, il suo desiderio di vendetta. Un Moby Dick un poco più umano e un poco più storico, ecco. Non vi dirò certo come va a finire, anche se è proprio lì, all’onda finale prima dei titoli di coda, che mi è scesa addosso, come la neve d’inverno, la risposta alla mia domanda: la canzone che ritrae questo periodo.
Come spesso accade quando ci si fa domande sui giorni che stiamo vivendo, un tuffo nel passato rimane una via per cercare le risposte molto affascinante. Ecco che si trovano pozzi di straordinaria freschezza capaci di illuminare la mente, allontanare la solitudine e affiorare le idee. La canzone ha un titolo tanto strano quanto la melodia stessa: “String Quintet In C, Op30 No.6”. L’autore è Luigi Boccherini, un uomo tanto eccelso col violino quanto sfortunato nella vita. Gli muore la moglie, gli muoiono i figli, gira mezza Europa tra le casate delle famiglie nobili per cercare riparo, vive di una pensione misera, ha numerose malattie che lo ostacolano più volte lungo la vita ma nonostante ciò realizza delle opere con il violino da far venire i brividi tanto sono maledettamente belle. Ora, caro lettore, non conoscere e non apprezzare la musica classica non è grave: è gravissimo! Di perché ce ne sarebbero molti, ma vi dovrete accontentare solo di uno: la musica classica, quella vera, non è nei palcoscenici, né nelle grandi opere liriche o nella mente di vecchi professori di filosofia: la musica classica è dentro la nostra vita, nei nostri gesti, nel nostro ascoltare il mondo e le sue sfaccettature. Sono tutti i pensieri che abbiamo paura di far lievitare ma che si trasformano, come per magia, in una poesia soffiata su scala musicale. Prendi questo finale del film di ‘Master and Commander’ (non ci sono spoiler, tranquillo).
È un modo dolce, spensierato e certamente meno pericoloso di volare. C’è quella nave, un minuscolo spazio dove vivere, e altrove tutto il mondo inaccessibile (vi ricorda qualcosa?). C’è la confusione, il perpetuo ritmo dell’uomo e la sua ripetitiva ottusità. C’è un mondo senza senso e senza una vera e propria direzione. Un guazzabuglio di persone con meticolosa e inspiegabile fretta di vivere. Un mondo assurdo quanto la nostra quarantena, ne convieni? Ma poi… c’è quella musica. C’è quel respiro. Ci sono quei due violini che danno una vitalità e un’energia a tutto quello che li circonda. Così la guerra diventa un ballo, la confusione un sussurro, l’immenso un attimo.
E allora mi torna in mente il bambino che rispose alla domanda del ritratto: “gli occhi del mare sono le navi”; e non è altrettanto vero quindi, caro lettore, secondo questa logica e queste pindariche riflessione, che gli occhi del mondo non sono altro che le case dove abitiamo, e il ritmo del suo cuore, la musica che ascoltiamo? Ascolta questa canzone con attenzione. Il ritmo di questa paura, di questa inspiegabile prigionia. Se ascolti bene noti che è tutta lì dentro; però, come trasformata, ecco che ne esce come musica nuova, autentica. Perché tutte le ferite, se accolte e ascoltate, sono il buco da cui possiamo scorgere le bellezze e le gioie della vita.
Non sono un esperto di musica classica, ahimè. Ma ne so abbastanza per sapere che un violino in un’orchestra è quel che più si può associare ad un bambino che ride durante un funerale: una valvola impazzita, un pezzo di mondo che non ce la fa più a rimanere chiuso, ma che vuole aprirsi e navigare per i mille mari del mondo, nonostante la tetra, mortuaria situazione che lo circonda. Tutto gli strumenti dell’orchestra abbandonano la loro maestosa eleganza e seguono quella risata, quel bambino che vola verso cime sempre più alte. Non per arrivare in un punto preciso, bensì per illuminare e accogliere il paesaggio che lo circonda: come la nave di Master And Commander.
Sentendo questo archetto d’archi, queste valvole impazzite, ecco riaffiorare quel desiderio. Quel sogno intrinseco in ogni nostro gesto di questa quarantena: essere gli occhi del mondo e non solo il suo spettatore. Per questo in questa giornata in cui il figlio dell’Uomo è risorto scacciando le tenebre, in cui morte e vita si allineano in una linea così sottile che è difficile distinguerle, in cui possiamo sentirci un po’ meno abbandonati a noi stessi; ecco che ci sentiamo come quelle navi. Un piccolo abito che possiede la forza di esplorare tutto il mare. E cosa è la libertà, se non una nave che va, in questo mare eterno, affrontando le furie del vento, gli imprevisti pericolosi e l’immenso mistero che la circonda? “Se la vita è tempesta, tempesta allora sarà” diceva Angelo Branduardi nella rivisitazione della musica di Boccherini. Ed è proprio vero. Oggi siamo tutti quel violino, siamo tutti quegli occhi del mondo; pronti a riprenderci la nostra vita, in una maniera più bella, più nuova e più autentica. Che è poi il vero senso di questa giornata di festa. Buona Pasqua amici!
Giuseppe Currado
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