Raccontiamo l’attualità con una canzone
Scusate se per un po’ non mi sono fatto vedere con questa rubrica, ma come direbbe Nanni Moretti in Ecce Bombo: “sono stato in giro”. Uno dei giri più distanti che ho fatto è stato nella Valle Isarco, un posto vicino a Bolzano che ha di italiano il nome e giusto qualche timido cartello stradale. Il resto è Austria mascherata. Non sono andato da solo, ma con un gruppo di ragazzi delle medie, l’età, giusto per capirci, di brufoli, ormoni e tanta voglia di ribellarsi a non si sa cosa e a non si sa chi.
È strano stare con quei ragazzi. A tratti hai voglia di tornare indietro alla loro età, a volte li vorresti buttare giù dalla vallata per l’ennesima cavolata fuoriuscita dalla loro bocca. Il classico pendolo fra il banale e il geniale che dimora il cuore dei ragazzini, e tu lì in centro a tenere unito il tutto. Con pazienza. Tanta pazienza.
Va da sé, un giorno andiamo in gita. Guardo le nuvole e mi rendo conto che il cielo, sulle montagne, ha voglia di dirti qualcosa. Sarà che le nuvole sono più veloci, sarà perché il vento passa tra i tuoi capelli lasciandoti una risposta che non puoi capire, sarà che i fiori si inchinano e ti ignorano al passaggio dei tuoi scarponi, ma così è: la montagna ti rende un po’ filosofo, un po’ solo.
E allora ti metti a pensare alle scelte fatte sulla tua vita, alle persone che si sono allontanate e quelle che si sono perse del tutto. Fai domande al sole, ma quello figurati se ti risponde. Aspetti che la risata di una ragazzina corteggiata da un ragazzino brufoloso ti renda una qualche spiegazione. Ma invece niente. Tutta risponde, la montagna. Ma con un linguaggio incomprensibile, come una musica cantata dietro una porta chiusa a chiave, o gli occhi di una ragazza di cui non conosci il nome.
Che solitudine, amici, in quei momenti. Tutto più lontano, tutto più freddo. Tanta bellezza intorno a me, ma poca sicurezza, nel mio sguardo. E io lì, ad aspettare una qualche spiegazione.
E invece arriva una storta. Non mia, ma di una ragazzina dagli occhi azzurri chiari. Una di quelle ragazze belle, proprio perché ancora non sanno di esserlo. Felici nella loro ingenuità, ignare del proprio coraggio. In ogni caso la situazione è bruttina. Ad ogni passo stringe i denti e il dolore si fa sempre più acuto. Il resto del gruppo procede felpato e incurante, mentre io e lei rimaniamo indietro, con le nostre stanchezze e i nostri pesi sulle spalle.
La strada è ancora lunga davanti a noi, più di tre ore di camminata. La guardo negli occhi dicendole che ce la faremo, nascondendo il più possibile il fatto che le bugie non riesco proprio a dirle. Propongo allora di raccontare una storia. La storia di come si sia presa la distorsione alla caviglia. Lei mi guarda con un po’ di preoccupazione, e in effetti non ha per niente torto. Io però insisto e allora, anche se titubanti, diamo il via alla storia. La raccontiamo a testa, un po’ io, un po’ lei. Inizia con una mucca che la insegue perché vuole mangiarsela, ma poi arriva il principe azzurro che la salva, ma, innamorato della mucca, la spinge giù dalla vallata facendole venire una distorsione. Come inizio è un po’ enigmatico, ma poi ci abbiamo preso gusto.
Così introduciamo il principe rosso, e l’amore che provava per lei. Poi una serata di ballo dove al vincitore spetta un superpotere gratis. E poi una strega, una vendetta omicida, un sortilegio da spezzare, un piano di salvataggio, un azzardo per amore…
Mi guardo attorno e vedo tante facce brufolose, attente e concentrate. Tutte accorte a sentire la storia. E in quel momento quella storia non è più solo nostra. Diventa la storia di tutti noi. Tutti quanti propongono nuovi scenari, ridefiniscono un personaggio, spiegano meglio una certa risposta.
Io parlo sempre di meno e aspetto che siano loro ad indicare la via da percorrere. In tutto ciò la caviglia non crea più alcun problema, anzi, sembra essersi guarita per sempre. Io la guardo e so per certo che quella storia la stava letteralmente portando a casa. Perché la fantasia non crea solo nuovi mondi, ma il più delle volte è capace di condurre meglio il nostro. Come canta Edoardo Bennato nella canzone Fantasia.
Dopo più di due ore arriviamo agli sgoccioli della storia. C’è tensione e curiosità nell’aria. Negli occhi dei ragazzi c’è la voglia di sapere come essa vada a finire. Lascio che questa loro tensione cresca. Poi uso tutta la mia esperienza e i miei anni di scuola di cinema per trovare assieme a loro una degna conclusione. E in effetti, la troviamo.
Dopodiché, loro mi guardano senza dire niente. Dentro di loro, parole e pensieri che non hanno forma. La consapevolezza di aver fatto qualcosa di grande senza essersene resi conto, una cosa che io cerco da sempre: trovare il finale bello per ogni cosa.
Li guardo felici. La caviglia ritorna a fare male ma non può nulla quel dolore con la gioia di una storia che funziona. Anche i miei pensieri tristi ribussano alla mia porta, ma io non li lascio entrare. Perché dentro di me ho spazio solo per questi ragazzi ora, che rubano il mio tempo, ma non lo sprecano mai.
Vi consiglio di sentirla quella storia. C’è dentro un po’ di tutti noi. Anche la montagna credo abbia gradito. Che cosa strana a pensarci: ci troviamo spesso davanti ad un paesaggi stupendi ma quasi mai li notiamo veramente. Forse perché il posto migliore che possiamo visitare, in fondo, è un bel ricordo.
Posso dire di averlo vissuto, e che tornerò a farci visita spesso.
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