Raccontiamo l’attualità con una canzone
Nella mia città c’era una volta un uomo, o meglio dire, c’è ancora, anche se “l’essere” per quest’uomo non è altro che un immutato omaggio al tempo che fu e che più tornerà. Se ne sta al centro della mia città. Immobile da anni, con lo sguardo leggermente sollevato e il piede destro stancamente appoggiato su un misero sasso, passano sotto di lui intere esistenze in movimento.
Macchine, biciclette, pedoni, intenti ad attraversare queste strade di mondo cementate, si imbattono in lui e rimangono lì ad osservare il suo volto serafico. E lui mai una volta che ricambia il saluto. Rimane lì, sospeso tra la terra e il cielo: lo stesso cielo che i legnanesi fotografano al tramonto quando il sole declina all’orizzonte come una vita che finisce.
La stessa terra che è la mia terra ma che conosco poco, e male, di cui so poco della gente che ci vive e per cui scrivo questi articoli, che sono come ponti lanciati nello spazio vuoto alla ricerca di un solido porto dove fissare i miei ricordi.
La stessa terra che non è la terra del nostro uomo. Perché non è di qui, lui. In realtà non è di nessuna città. Lo abbiamo creato noi perché volevamo dare un volto al nostro popolo. E abbiamo scelto lui, vittorioso soldato di una guerra mai combattuta, mito nazionale di una nazione che non ha mai abitato. Lo chiamiamo Alberto da Giussano. Più di cento anni fa i miei compaesani erigevano la sua statua in mezzo ad una rotonda, vicino alla stazione. Così che tutta la gente che ritornasse a Legnano con il treno, uscendo potesse pensare: “Guarda, è Alberto da Giussano. Guarda, sono a casa”.
E da allora Alberto se ne sta lì, con una spada alzata obliquamente verso il cielo, e uno scudo enorme ad appesantire quel suo sguardo serio e inamovibile. Ora nessuno lo guarda più veramente. È come quegli alberi millenari che portano in sé il fascino e l’eleganza del loro vissuto, ma che fuori da esso spariscono in una nube di indifferenza e superficialità.
E questo è davvero un peccato. Così l’altro giorno tornando a casa, mi sono messo lì a guardarlo, o – come potrei meglio dire se non si fosse trattato di un statua immobile e senza vita – a tenergli compagnia.
La prima cosa che notai in lui fu la stanchezza. Guardai quella spada, un tempo forse ben eretta nel firmamento del cielo, ora alquanto decadente sotto il peso dei lunghi anni passati a sorreggerla. Mi sarebbe venuta voglia di toglierla, quella spada, almeno di notte, quando i legnanesi si rintanano nelle loro case aspettando il nuovo giorno e meditando scrupolosamente su ciò che non sia andato bene in quello appena passato.
Ma se così avessi fatto, avrei dovuto togliergli anche lo scudo, e l’altra spada che porta nella sua cinta, e l’elmo, la giacca, la federa e così via. E poi? Poi cosa sarebbe rimasto? Cosa avrei trovato dietro tutto quell’armatura?
Forse un uomo stanco, sfinito, lacerato nella sua solitudine e sconfinato in un mondo che non gli appartiene. Forse avrei trovato me stesso, derelitto incompreso e osservatore silenzioso delle cose che capitano qui in questo mondo. O forse, e ciò mi mise molta paura, forse non avrei trovato niente. Solo un fantasma, un vuoto da riempire con superficiali ornamenti. Perché anche le statue hanno un’anima. Anche loro hanno una storia. Ma che ne è della storia di Alberto, figura nata per decorare al meglio la storia nostra? Che ne è della sua anima in mezzo a tutto questo rumore di macchine e di treni che passano?
Ho provato allora tanta tenerezza per quell’uomo nascosto dietro la sua leggenda. La stessa tenerezza che provo per Il generale nella canzone di Francesco De Gregori.
Lo salutai e me ne andai, lasciandolo con la sua spada alzata in cielo e il suo scudo poco rialzato da terra.
Poi un pensiero di speranza mi scaldò il cuore. Mi immaginai un giorno, mentre me ne vado per le strade di mondo cementate di Legnano, di passare in quella rotonda. E alzando gli occhi, lì nella direzione della statua, di non vederla più. Solo i resti della sua armatura, della spada e del suo scudo lasciati lì a terra.
E allora saprò. Alberto da Giussano, Alberto l’eroe, Alberto il mito, Alberto la leggenda. Lui in tutto questo sarà fuggito, prendendo il treno che per anni ha sentito passare a poca distanza da lui.
E me lo immagino lì, su quel treno, finalmente a riposo, dopo anni di immobile sopportazione. E magari guardando il finestrino gli verrà da pensare:
“Guarda, sono Alberto da Giussano. Guarda, sto tornando a casa”.
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