A tu per tu con il cantautore bolognese, disponibile negli store con il nuovo disco “Mondi nuovi“
Si intitola “Casa mia” il nuovo singolo di Gerolamo Sacco, secondo estratto dal suo ultimo album di inediti intitolato “Mondi nuovi”, rilasciato lo scorso 13 settembre su l’etichetta Miraloop e distribuito da Believe. Un lavoro introspettivo quanto universale, fatto di esperienze, evoluzioni personali, viaggi verso orizzonti inesplorati, luoghi e persone che lasciamo alle spalle, sentieri giusti o sbagliati che siano.
Ciao Gerolamo, partiamo dal tuo nuovo singolo “Casa mia”, cosa racconta?
«”Casa Mia” racconta il nostro pianeta e noi umani, è un ritratto incuriosito tra la presa in giro e l’ammirazione. Guardiamo la realtà: siamo sette miliardi di esseri viventi su una palla che gira nel vuoto, la Terra. Un’altra sfera più piccola, la Luna, gira intorno a quella più grande, in moto perfetto. Ma diamo tutto per scontato, per noi tutto questo è parte di una “normalità”. Una normalità dove siamo sommersi da scemenze totali, c’è tutto un circo mediatico che le racconta, minuto per minuto (“per il cuore un battito, per il tg un dibattito, e per te un giornale dove leggere le novità..”) senza darci un minimo senso…
“Casa Mia” è nata una giornata di Gennaio, fredda e blu, leggevo di un’importante missione spaziale per andare a cercare batteri su Marte, e di fianco si parlava dell’Amazzonia colpita da incendi e deforestazioni selvagge per piantare la soia: questo paradosso mi ha ispirato il brano».
Un brano che rappresenta il secondo estratto dal disco “Mondi nuovi”, progetto che evidenzia e mette insieme la tua innata attitudine al cantautorato e l’esperienza maturata negli anni come producer. Come sei riuscito a confluire queste due anime?
«Bella domanda. Grazie a un progetto vasto come Miraloop (casa discografica e creative agency fondata da me e mio fratello e socio Niccolò), che ha quattro etichette indipendenti al suo interno, ho imparato a lavorare generi musicali diversissimi fra loro. Posso fare dancehall come jazz per strumento solo, colonne sonore come elettronica EDM, rock come rap. Così tendo, nel mio progetto di cantautore, a scrivere e raccontare storie su mondi sonori che non si rifanno a nient’altro se non a quello che devono raccontare. Non tanto per autoreferenzialità o ricerca di originalità, piuttosto per creare la condizione musicale in cui l’autoespressione possa scatenarsi liberamente. Non ci sono molte cose simili ai “Mondi nuovi” in giro, ma quel che mi interessa è la storia: e ogni storia è caratterizzata da linguaggi diversi.
Il loop di cori campionati di Stelle Dipinte, la viola di Mondi Nuovi che galleggia su una base progressive rallentata, la musica dei film di fantascienza mescolata col prog anni ’70, i balli in sei ottavi della nostra tradizione popolare messi sull’elettronica (il Mondo di Fianco) e così via. In “Sarà già passato tutto”, per esempio, c’è molto della musica sci-fi di Hollywood e Casa Mia, che alcune radio stanno suonando in questi giorni, non avrebbe quel calore senza gli strumenti indiani come l’Ehru, ma se dovessi definirne il genere direi…un dub elettronico con i suoni della trap su un’armonia classica!».
Quale filo conduttore unisce le quindici tracce presenti nell’album?
«”Mondi nuovi” racconta un viaggio, metaforico e reale allo stesso tempo, fuori dal pianeta Terra…dentro se stessi. Ogni viaggio è un intersecarsi di mille piani, e Mondi Nuovi è dedicato a tutti coloro che in un modo o nell’altro si trovano costretti ad affrontare un viaggio della vita, dovendo contare su se stessi per un po’. Viaggiando si scoprono cose che non si pensava di conoscere, si incontrano emozioni, persone nuove, si vive un’esperienza.
Il disco dura 60 minuti e solo andando da una traccia all’altra ti rendi conto non solo della storia vera e propria, ma anche della narrazione che sta dietro il racconto: quella che parla di un percorso personale nel mezzo di una tempesta emotiva. Quello che troviamo alla fine del viaggio dipende soprattutto da noi: e questi sono i Mondi Nuovi. Il nodo sta tutto nella traccia quattro, Cinema, dove in questo mondo magico e onirico il protagonista sale su una nave ormeggiata nel deserto, va via dalla “città dimenticata” e parte per lo spazio. Il primo impatto che ha è proprio con sé stesso nel brano “Deserto”, dove parla di sé».
Chi ha collaborato con te in questo tuo ultimo lavoro in studio?
«Musicalmente l’ho fatto praticamente tutto da solo. Anche perché l’ho fatto aggiungendo pezzo dopo pezzo in momenti diversi. Salvo qualche registrazione di chitarra (Virginia Paone) di viola (Valentina Landi), aggiunte in post-produzione a tracce praticamente finite, “Mondi Nuovi” e nato nella mia testa e finito su un master tape. Dalla stesura dei primi accordi alla masterizzazione delle tracce, passando ovviamente per la registrazione delle voci.
Dal punto di vista dei testi invece, ho lavorato con Jacopo di Donato, nome d’arte Senatore Cirenga, cantautore davvero promettente che negli studi Miraloop curo i suoi dischi come producer (ascoltatevi Senatore Cirenga – Il Banco Vince / Anche Stanotte e gli altri che anticipano il primo album, sempre nella divisione Hearts di Miraloop Records come i “Mondi Nuovi”). Lavoriamo per la stessa scena musicale, quell’area “italiana” di Miraloop dove condividiamo la visione di canzoni e cantautorato, ma con i “Mondi Nuovi” ho realizzato quanto condividessimo in termini di sensibilità artistica. Uno come lui potrebbe tranquillamente fare l’autore di canzoni per i big della musica italiana».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come hai scoperto la tua passione per la musica?
«Molto tardi, avevo tipo 18 anni. Già passavo il tempo a registrare cassettine dalla radio per cercare brani rari, e mi divertivo a suonare un vecchio pianoforte che c’era in casa, per gioco. Ma la scossa avvenne con una di quelle tastierine, una Casio, che si compravano alla scuola media per le lezioni di musica. Volevo sentire quei suoni stupidi uscire con un volume potente, così la collegai all’amplificatore hi-fi che aveva mio padre; ma purtroppo la inserii nell’entrata sbagliata, quella dei giradischi, che trasmette più potenza: la prima nota uscì distorta e violentissima, suonava come una chitarra elettrica. Compresi in quel momento come ci si doveva sentire a suonare un sintetizzatore.
Poco dopo spesi tutti i miei risparmi per comprami due giradischi e qualche vinile, e in un mese avevo già una serata in una discoteca. Allora volevo capire come si facevano i dischi che suonavo: mi aiutarono due compagni di scuola smanettoni, mi bastava attaccare una scheda sonora con una memoria interna al Pentium 166 che mia mamma usava per scrivere. Da allora iniziai a “campionare”, cioè a costruirmi la mia libreria di suoni registrando piccoli frammenti (rullanti, casse, piatti) da altri dischi. Mi ricordo quel periodo, campionavo di tutto. Dai cd, dai vinili, direttamente dalla radio, ho fatto un macello. Successe tutto in pochi mesi, e poi ero già in uno studio di registrazione. Da lì è partita l’avventura che mi ha portato fino a qui, ora».
Quali ascolti hanno accompagnato e influenzato la tua crescita?
«Beethoven nella culla: avevo la sesta sinfonia sempre accesa perché -così dicono- mi faceva stare tranquillo. Tuttora quella sinfonia per me è una specie di droga. Poi tutti gli ascolti di mio papà, progressive rock e rock storico su tutti, dagli Stones ai Genesis, ma anche italiana, Zucchero, Battiato. In casa non si guardava granché la tv, e radio solo Radio Rai, specialmente Radio Tre. Grazie a mio padre ho ascoltato le cose più fighe della storia della musica, saltando a più pari tutta la musica “brutta” che è uscita negli anni Settanta Ottanta. Così quando negli anni Novanta c’è stata quella esplosione assurda di novità che ha tratteggiato il mondo attuale, io ero “sul pezzo”, come si dice qua a Bologna, ma anche molto esigente. Sono convinto che quando passi l’infanzia con i Led Zeppelin e i Deep Purple, i Guns e i Nirvana non possono che farti ridere. Così sono passato dai Doors ai Prodigy, direttamente. Poi in adolescenza quasi solo elettronica e techno».
Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti l’attuale scenario discografico?
«Innanzitutto sono contento che il mercato italiano abbia retto alla globalizzazione in modo sorprendente, quando nel mondo sono morte intere culture musicali. Oggi al numero uno in Giappone, Turchia e Brasile trovi sempre Ariana Grande e quella gente lì nelle stesse posizioni. L’Italia sembra essere sopravvissuta, se non altro perché è il mercato che più vende musica prodotta all’interno dello stesso paese e la lingua madre è rimasta viva. Del resto abbiamo inventato noi gran parte degli strumenti musicali, dal pianoforte al violino, le sette note, il contrappunto armonico, il belcanto, e questo dovrebbero ricordarlo più spesso. Dal punto di vista artistico invece la cosa è un poco più complessa: il mercato di oggi è molto semplice, ci sono poche realtà che sono in grado di sostenere investimenti ingenti, in Italia le tre major e le due indie principali ad esempio, e poi dopo tutti gli altri che invece lanciano le nuove idee, le nuove tendenze, che si fanno notare dai big.
Quindi il compito nostro (parlo non solo da artista, anche come produttore discografico) non è pensare di competere con le multinazionali dal punto di vista del business, dato che non c’è gara, ma dal punto di vista del prodotto artistico: questo deve essere il nostro lavoro. In Miraloop stiamo cercando di portare avanti “dei valori oltre che dei lavori”, sia come casa di produzione, come etichetta discografica indipendente, ma anche come studio di registrazione. Ogni artista è unico, e noi dobbiamo fare musica nuova, meravigliosa, fuori di testa, se quello che facciamo, poi, può essere attrattivo per gli investitori, tanto meglio. Qualcosa sta già accadendo, ma deve essere la nostra idea, deve riflettere l’originalità degli artisti, deve essere musica sincera».
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi professionali e/o sogni nel cassetto?
«Come cantautore sto lavorando per portare il mio progetto dal vivo, il mio sogno è fare un vero e proprio tour sui Mondi Nuovi, come concerto rock ma perché no, anche in teatro. Come produttore mi piacerebbe mettere le mani su una voce popolare, una che ho sempre udito da ascoltatore. Quella di Luca Carboni ad esempio. Sono sicuro verrebbe una cosa magica».
Per concludere, dove e a chi desideri arrivare con la tua musica?
«A chi cerca delle visioni nuove. In genere parlo a persone curiose, con un cuore curioso. Vorrei parlare anche a tutti gli altri, ma con le cose che ho da dire davvero. Come music producer so cosa piace alla gente, cosa va, gli stili musicali, ma quando scrivo per me metto per prima la storia che ho da raccontare. Oggi è importante ricercare il “mood” giusto, le “tendenze” giuste, talvolta si perde un po’ il racconto. Io invece voglio parlare a chi ha bisogno di storie. Se fossi uno stilista mi piacerebbe portare la gente a vestire abiti che davvero è costato farli, non tanto per pagare gli influencer, ma ricamando filo su filo, intreccio su intreccio; abiti importanti non perché pochi se li possono permettere, ma perchè sono davvero pezzi unici. Ad ogni modo, fino a che non arriverò a tutti, ringrazio tantissimo di avere qualcuno che mi segue comunque…senza chiedere il permesso».
Nico Donvito
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