A tu per tu con Ghemon, la nostra intervista in occasione dell’uscita di “Una cosetta così”, album con cui inaugura il suo personale 2025
Musica e stand-up comedy per Ghemon: si intitola “Una cosetta così” il suo nuovo album fuori per OTR Live / ADA Music a partire da oggi, venerdì 10 gennaio. Ghemon Una cosetta così
Dopo oltre settanta repliche dell’omonimo spettacolo, scritto dallo stesso Ghemon insieme a Carmine Del Grosso, il cantautore torna con un album unico in Italia nel suo genere, un disco che mescola stand-up comedy e musica inedita, unendo la tradizione dei comedy album americani alla forza del nostro teatro canzone, richiamando l’eredità di artisti come Gaber e Jannacci. Ecco cosa ci ha raccontato.
Ghemon presenta il progetto “Una cosetta così”, l’intervista
Partirei chiedendoti: cosa rappresenta per te questo disco e come sei riuscito a mescolare la stand up comedy con la musica in un unico insieme?
«Rappresenta assolutamente un punto di svolta nella mia carriera, con buona pace dei miei discografici che vorrebbero mi dedicasi esclusivamente alla musica. Da questo momento in poi, di sicuro porterò avanti le due cose, anche parallelamente. Sono un appassionato di stand up comedy, da almeno da una quindicina di anni. Ho fatto prima un lungo percorso soprattutto da fruitore, poi ho iniziato a fare le mie prime prove in pubblico, penso intorno al 2018, quindi è un po’ di tempo che ci giro attorno. Dopo aver fatto praticamente due dischi in due anni e due Festival di Sanremo in tre anni, mi sembrava necessario cambiare, voltare un pochettino pagina per trovare il tempo di dar sfogo a questa mia altra passione. Dopo aver portato in giro per più di settanta date lo spettacolo, ho pensato che sarebbe stato bello mettere alla fine di ogni monologo una canzone che in modo più serio potesse riassumere quello che avevo detto nel monologo precedente. E così è venuto fuori anche questo disco».
Quali sono state le sfide più esaltanti che hai dovuto affrontare sia nella stesura dello spettacolo che nella trasposizione poi del disco?
«Rendermi conto che mi venivano fuori della cose che comunque facevano ridere, che non era solo la battuta che potevo dire a cena, ma che era una cosa un pochettino più strutturata, più complessa e, soprattutto, vedere che le persone ridevano senza sapere chi fossi. Perché uno potrebbe giustamente pensare di essere avvantaggiato, che conoscendomi già come cantante, potesse favorire. Non sempre e non tutti, forse per fortuna. Non mi reputo così tanto famoso e molto spesso le persone non si ricordano le facce. Mi presentavo alle serate a provare i pezzi con un nome finto, quindi se non veniva detto, molti non mi riconoscevano. Mi sono sentito un po’ come Batman e Bruce Wayne. È stato bello, divertente, esaltante».
A proposito di skills, quali pensi di aver acquisito lavorando a “Una cosetta così”?
«Beh, sicuramente ho affinato molto di più la parte di scrittura, oggi mi siedo al tavolo con meno patema d’animo e con più voglia di divertirmi. E penso che questo possa influenzare anche la mia musica. Inoltre, ho affinato la capacità di parlare alle persone guardandole in faccia, perché quando si canta ci si riesce comunque a perdere nella musica chiudendo gli occhi, mentre quando si parla le persone vanno a guardare in faccia».
Tra i monologhi, c’è una tua bella analisi sul rap in Italia. Sei stato uno dei pionieri della scena, da un genere per pochi all’improvviso è diventato per un periodo il genere mainstream, superando anche il pop. Come hai visto evolvere l’hip hop in questi decenni e, soprattutto, in che rapporti siete oggi?
«Guarda, l’ho visto evolversi in quello che abbiamo tutti quanti sotto gli occhi, quindi con una forza e un mercato gigantesco. Quando abbiamo iniziato a fare rap, sia per me che per altri colleghi, era difficile trovare dei locali che ci permettessero di fare una serata, poiché era considerata un tipo di musica di cui non fregava niente a nessuno. Da lì a riempire gli stadi… insomma… di strada ce n’è stata. In più, trovo che all’epoca il rap avesse un impatto innovativo e dirompente, che poi ha veramente avuto. Lo stesso impatto che credo abbia e avrà ancora di più in futuro la stand up comedy. Entrambi questi movimenti vengono dalla strada e possono essere intrapresi da chiunque, senza degli studi preparatori, una scuola, ma imparando il mestiere sul campo. Il mio rapporto con l’hip hop oggi? C’è ed è sempre presente, non lo posso estirpare, non trovo di essere diventato un cantante pop che ha cambiato genere. Quando a più di un certo punto della mia carriera, mi è stato domandato espressamente di cambiare la mia proposta artistica per rincorrere altri numeri, ho risposto che avevano sbagliato persona, ma il rap fa sempre parte di quello che faccio. Ibridato, ma ce lo ritrovi sempre».
Per concludere, quali sono le tue aspettative e dove pensi possa collocarsi, nel sovraffollato scenario musicale di oggi, un progetto in parte leggero e in parte complesso come questo?
«Le miei aspettative? Non ne ho. Ciò non significa che non abbia ambizioni o che penso non sia un lavoro importante, tutt’altro. Ma ho forse imparato da questo spettacolo a pensare che sarebbe stata meglio una sorpresa di una delusione delle aspettative. È inutile pensare di poter fare i conti con un mondo sovraffollato, come hai detto tu. Solo il responso delle persone, mi farà capire realmente come sarà andato questo disco, se saranno arrivate le cose che volevo dire. È una cosa nuova, assolutamente, e si rivolge potenzialmente a tutti quelli che la possono capire. Chiaro che vorrei, come si dice in inglese, i miei fiori ancora da vivo. Cioè, è ovvio che vorrei fosse recepita come un qualcosa di innovativo. Magari, tra qualche anno, si potrà dire “ah, lui l’aveva fatto per primo”. Forse è quello che desidero di più, che questa formula possa funzionare nel tempo e crescere sempre di più».