Gio Evan: “Bisogna scegliere il proprio chiasso” – INTERVISTA

A tu per tu con Gio Evan che si racconta in occasione dell’uscita del nuovo disco “L’eleganza del mango”. La nostra intervista al cantautore
“L’eleganza del mango” è il nuovo progetto di Gio Evan, uscito lo scorso 19 settembre. Un musiromanzo che attraversa poesia, canzone, spiritualità e narrazione. Ne abbiamo parlato con lui, tra metafore naturali, silenzi da coltivare e radici in movimento.
Gio Evan racconta il nuovo album “L’eleganza del mango”, l’intervista
Da quali pensieri sei partito per realizzarlo e a quali conclusioni sei arrivato?
«La faccenda inizia con la Bibbia e con altri testi sacri. In tutti si dice che l’uomo è l’essere perfetto, e gli viene data anche la chiave per custodire il pianeta. Ma oggi vedo che queste chiavi le abbiamo perse: l’uomo perde acqua, ha delle falle. Così ho cominciato a giocare con l’idea che forse gli altri esseri viventi, fuori dal genere umano, siano più virili, più sani dell’uomo stesso. Il mango, ad esempio, è stato un albero che mi ha protetto in India, in tempi di grande povertà. In più è un frutto economico e pieno di nutrimento. In India è simbolo di spiritualità perché gli asceti se ne nutrono. Ha altruismo, sacrificio. Ho pensato che potesse essere un buon maestro spirituale. Oggi tutti cercano una guida, ma abbiamo paura di eleggerne una. E allora, forse, meglio appioppiarsi al mango».
A tutti gli effetti, “L’eleganza del mango” è un musiromanzo: ci sono dei ruoli e c’è un protagonista. Come lo descriveresti?
«Me lo immagino come un ragazzo, ma ho voluto controbilanciare la figura con una voce femminile, così da non definirne il genere. Volevo che fosse homos, umano. L’ho pensato nudo, sdraiato su un terreno, scarico di energia, in posizione fetale… come un legume. Mi piaceva riportare l’uomo al seme.
Da lì parte una guida intelligente, un maestro, che nel vinile diventa anche narrativo: attraverso le canzoni, ti conduce a una filosofia di estrema empatia. Non basta sentire l’altro, bisogna diventarlo».
In un’intervista, Lucio Corsi mi ha detto che gli alberi ci insegnano a stare con le radici per terra e la testa tra le nuvole. Tu che cosa impari dalla natura?
«Io, in realtà, la penso quasi al contrario. L’albero non è “radicato” per fermarsi, ma per viaggiare: le radici si muovono, evitano sassi, cercano strade, fanno chilometri. Il mango ha radici che compiono viaggi incredibili. Abbiamo romanticizzato l’idea di radice come staticità, invece le piante camminano: guarda la zucca! La chioma, quella sì che mostra quanto un albero è saldo. E ogni vita, ogni pianta, ogni creatura ha qualcosa da insegnare. Dai 14 ai 18 anni ho vissuto in montagna, lontano dai miei. Cercavo una guida, un maestro, e lo trovavo nei libri. Ma poi un giorno una chiocciola che attraversava l’orto mi calmò. Ho capito che la lentezza e la contemplazione possono essere maestri migliori. Da lì in poi ho cominciato a guardare davvero gli alberi, le piante…».
“Sarai giudicata” è una delle tracce più forti del disco. Tu che rapporto hai con il giudizio?
«Quello che gli altri riversano su di me non mi interessa. Perché io non riverso giudizi sugli altri. Quando Gesù dice “non giudicare, per non essere giudicato”, non intende che gli altri smetteranno se lo fai anche tu, ma che tu smetterai di dar loro attenzione. È un fatto vibrazionale: se tu sali, le cose basse non le senti più. È come una radio: se non sei sulla stessa frequenza, non ascolti il conduttore. Io vengo da una spiritualità sciamanica e animista, e una delle prime regole è proprio l’assenza di giudizio».
In “Ricetta di pace” suggerisci empatia e ascolto come ingredienti per migliorare il nostro tempo. Perché oggi ci manca così tanto questa capacità di sentire l’altro?
«Guarda, in realtà penso che ne stiamo uscendo. Vedo un rialzo energetico nei giovani, una risposta forte ai colpi che l’umanità ha preso. Soffriamo di distrazioni enormi. Ogni rivoluzione ha avuto il suo oppio dei popoli: droghe, poteri forti, internet. Ma oggi capiamo sempre più che le relazioni e lo stare insieme possono portare a grandi cambiamenti. Siamo in un limbo, ma ci stiamo svegliando».
Il tuo progetto fonde parole scritte, cantate, recitate. Hai la sensazione che oggi si dia più importanza al “modo” in cui si comunica che al contenuto?
«Sì, e credo che la cosa che stiamo perdendo più dell’empatia sia proprio la capacità di mettere contenuti nelle nostre opere. Siamo la voce dell’epoca, certo, ma l’arte deve guarire. Come dice Jung, se non serve a guarire, non è arte. Io faccio musica perché posso veicolare messaggi a chi ama la musica, scrivo libri per chi preferisce leggere. Cerco di arrivare in tanti modi. La forma è solo un tramite: l’importante è il pensiero».
Nel 2021 hai partecipato al Festival di Sanremo con “Arnica”. Prima di allora non avevi mai visto il Festival. Che ricordo hai oggi? E soprattutto, da quel momento hai cominciato a seguirlo?
«Sì, è vero, non l’avevo mai visto. Ma non per snobismo: viaggiavo tanto, vivevo in Brasile, in Amazzonia… mica c’era Sanremo. È successo tutto per caso, è stato divertente. La mia canzone è arrivata al Festival senza che io sapessi nemmeno in che contesto mi stessi muovendo. Ma da lì ho iniziato a nutrirmi del Festival, e oggi lo seguo. Mi piace. Amo la musica, amo il palco. L’ho vissuto molto bene».
Dal 28 ottobre tornerai in tour con “La fine del mondo”. Cosa puoi anticiparci?
«Sarà uno spettacolo in quattro atti, un po’ alla Wes Anderson, con musica, poesia, fisica quantistica e comicità. La musica sarà solo un filo conduttore: parlerò, in modo criptico, di affinità. Di come ottenerla. Un piccolo spoiler? Si parte dalla capacità di dire “sì”, invece che “no”. Perché se dici “non voglio la guerra”, l’universo sente solo “guerra”. Bisogna invertire i pensieri, generare una positività totale».
In un mondo chiassoso e rumoroso come quello di oggi, come ci si protegge? Come si coltiva l’arte del silenzio?
«A colpi di campagna! Io non vivo in un mondo chiassoso, vivo dove mi svegliano gli alberi.
Quando non sono in tour, vivo una monotonia piena di passerotti, cinghiali, caprioli. Fanno dei suoni bellissimi. Ecco, bisogna scegliere il proprio chiasso».