A tu per tu con il cantautore fiorentino, in uscita con il suo nuovo album “Storie vere tra alberi e gatti”
A due anni di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, ritroviamo Giulio Wilson per parlare del suo nuovo progetto discografico intitolato “Storie vere tra alberi e gatti”, disponibile a partire dallo scorso 9 aprile. Un album dallo stile ricercato, tredici brani con altrettante storie di vita fuori dal tempo, che si lasciano ascoltare e “sfogliare” come fossero capitoli di un romanzo, narrazione di vicende dei giorni passati e di quelli presenti.
Ciao Giulio, bentrovato. Partiamo da “Storie vere tra alberi e gatti”, ci racconti la sua genesi?
«E’ un disco nato nella mia testa circa due anni fa, poi realizzato in sala di registrazioni tra Santiago del Cile e Firenze alla fine del 2020. Volevo creare un album sincero ma anche estremamente curato nella sua essenza, dai testi alle melodie, fino agli arrangiamenti, senza seguire gli orientamenti tecnici e commerciali delle produzioni discografiche in voga».
Quali riflessioni e quali stati d’animo hanno accompagnato la stesura di queste tredici canzoni?
«La nostalgia è uno dei sentimenti abbastanza presente in questo disco, canzoni che preferiscono affrontare temi del passato piuttosto che macchiarsi di modernità. Quando le scrivo non sono mai attratto dal presente, forse perché lo reputo meno affascinante e romantico rispetto al nostro trascorso. La stessa cosa avviene con i miei vini: quelli invecchiati acquistano caratteri organolettici migliori. Poi c’è il fattore “speranza”, questa atavica voglia di continuare a lottare e credere in qualcosa di migliore, chi meglio degli Inti Illimani potevano incalzare questo concetto nel brano “Vale la pena”».
Più che un semplice album potremmo definirlo una raccolta di storie, c’è un qualche filo conduttore che unisce queste tracce?
«Non c’è un vero e proprio filo conduttore se non quello di voler raccontare tramite queste canzoni delle storie realmente accadute, una sorta di “romanzo musicato”, come avrebbe fatto un menestrello d’altri tempi».
Dal punto di vista musicale, che tipo di sonorità hai voluto abbracciare?
«Orchestrazioni che potessero accompagnare delle immagini emotive. E’ una produzione artistica che si avvicina a quelle cinematografiche, con tanta dinamica e tanti archi».
Che ruolo gioca la musica nel tuo quotidiano?
«Se sono in fase di scrittura perdo la percezione del tempo e non ho più contatti con l’esterno, non rispondo al telefono, non ci sono per nessuno. Sono attratto dalla composizione e la stessa mi rapisce fino a sfinirmi, ma per fortuna scrivo e compongo solo in certi periodi dell’anno pertanto le giornate non sono mai uguali. In questo momento di confinamento vivo la musica sui social e non nascondo che la cosa sia di una tristezza pazzesca».
A livello di ascolti, tendi a cibarti di un genere in particolare oppure ti reputi abbastanza onnivoro?
«Ascolto tutto, tranne la trap e altre canzoni moderne che reputo prive di classe, prive di buone maniere, cafone come i tatuaggi di chi le canta».
Come descriveresti il tuo rapporto con i social e quanto incidono, secondo te, nel lancio di un progetto discografico oggi?
«Oggi i social indicono molto, purtroppo, questa maledetta tecnologia ha cambiato totalmente le nostre abitudini. Dentro un telefonino inseriamo una parte di noi stessi, ci addormentiamo e ci svegliamo accanto a lui, come fosse il nostro amante. Lanciare un disco senza social? si potrebbe provare, e come direbbe Jannacci: per vedere da lontano l’effetto che fa».
Per concludere, a chi si rivolge la tua musica e a chi ti piacerebbe arrivare in futuro?
«Si rivolge ad un pubblico non giovanissimo, che ha il coraggio e la capacità critica di distinguere le belle dalle brutte, cosa non scontata oggigiorno. Egocentricamente parlando, posso ammettere con estrema presunzione che le mie canzoni appartengono alla schiera delle belle (sorride, ndr). Mi rivolgo ad un pubblico colto e stravagante: collezionisti del vintage, fumatori di pipa, casalinghe depresse, professori universitari, benzinai con il frac, sessantottini, zingari e poeti».
Nico Donvito
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