Intervista al cantautore che presenta il nuovo singolo
Giuseppe Anastasi torna sulle scene musicali con Berlino, una canzone che parla d’amore e di tenerezza ma che non perde quel gancio alla concretezza, alla storia e all’umanità che da sempre caratterizzano la scrittura intensa, perforante e delicata del cantautore siciliano. Protagonisti del racconto due innamorati che, nel 1989, possono finalmente tornare ad amarsi dopo essere stati divisi dal muro di Berlino per anni: un messaggio che, proprio in questo momento, si rivela essere quanto mai attuale e sincero sottolineando l’importanza della vicinanza degli affetti e degli abbracci.
Ciao Giuseppe, benvenuto. Inaugurerei la nostra chiacchierata partendo dal tuo nuovo singolo intitolato “Berlino”, chiedendoti semplicemente: che sapore ha per te questo brano?
«Questo brano ha un buon sapore perché è una canzone d’amore ed ha anche una doppia valenza: dentro di sé ha un retrogusto politico ma anche un risvolto nell’amore con un bel lieto fine. E’ una canzone che mi rappresenta molto. D’altronde parlare delle canzoni è un po’ come parlare dei propri figli: se ne parla sempre bene».
Seppur siano passati oltre trent’anni dal crollo del muro di Berlino, di muri, di divisioni e di crepe nella nostra società ce ne sono ancora oggi, e forse ce ne stiamo rendendo conto davvero in questo stop forzato dovuto alla quarantena. Socialmente e politicamente parlando, secondo te, ha ancora un senso parlare di ideali?
«Quando passerà questo periodo d’incubazione per l’umanità credo proprio che avrà nuovamente un senso parlare di ideali. Nel novembre del 1989 con il muro di Berlino crollò il socialismo eppure proprio in questi giorni abbiamo visto quanto le politiche sociali servano. Le cosiddette politiche capitalistiche e di austerità ci hanno portato a trovarci in grande difficoltà di fronte a quest’emergenza: quasi non c’erano le mascherine nemmeno per i medici. Io credo che dopo questo evento l’umanità dovrà recuperare una propria nuova coscienza».
Questa non è assolutamente una canzone politica, bensì d’amore. Tu l’amore lo hai raccontato in tutte le salse, attraverso tante declinazioni, per cui ti chiedo: in che modo riesci a rileggere in maniera sempre originale il nobile sentimento per antonomasia, senza sconfinare nelle insidie della retorica?
«Utilizzando la semplicità che, come diceva il grande sculture Constantin Brâncuși, non è altro che una complessità risolta. La cosa importante è evitare di cadere nella banalità e, quindi, nella retorica. L’amore ha tantissime sfaccettature: ci sono canzoni che pur parlando d’amore non per forza sono state concepite per parlare dell’amore per una donna. Ci sono tanti tipi d’amore, tanti amori diversi. Personalmente trovo un grande aiuto nella lettura di chi ha scritto tanto prima di me».
Cosa aggiungono a livello di narrazione le immagini del videoclip diretto da Andrea Martini?
«Aggiungono moltissimo perché mi piace moltissimo l’idea del fumetto totalmente in bianco e nero e con soltanto due colori che spiccano: il rosso della sciarpa di lui, che trova l’amore al di là del muro ma gli crollano gli ideali in cui crede, e gli occhi blu di lei. Credo che sia il lavoro della regia che del disegno sia stato un connubio perfetto con la canzone che ne ha beneficiato emotivamente».
Veniamo all’attualità Giuseppe, in questo periodo stiamo vivendo una situazione inedita a livello mondiale, l’emergenza sanitaria Covid-19 ha mutato, seppur momentaneamente, la nostra quotidianità. Tu, personalmente, come stai vivendo tutto questo?
«Devo dire che chi scrive è abituato a rimanere parecchio a casa visto che non ha orari d’ufficio o impegni scanditi dal tempo. In questo momento devo dire che mi manca molto l’insegnamento: sto facendo lezione online ma mi manca il contatto diretto e tangibile con i miei allievi. La mattina, dopo la colazione, leggo la rassegna stampa per rimanere aggiornato su quello che succede e poi passo parte della mia giornata con la chitarra, un libro, un bel film o qualche ora di gioco insieme a mio figlio».
Che ruolo può giocare, secondo te, la musica in questa delicata situazione?
«Tutte le forme d’arte in questo momento possono avere la loro utilità perché stando a casa, le persone, possono trovare negli artisti dei compagni. Se si guarda un film si vedono degli artisti fare il loro lavoro, se si ascolta un disco si sente la voce di un artista che canta e di altri che suonano e così via… Tutti conviviamo con l’arte in questi giorni e questo, ancora di più, ci fa capire quanto sia importante la cultura e l’arte per tutti noi».
Nelle tue canzoni hai descritto bene una sorta di scenario sentimentale-apocalittico, mi vengono in mente ad esempio la bellissima “2089” ma anche “Malamorenò” di Arisa, ecco… una curiosità me la devi togliere: visto che sei un autore che viaggia molto con la fantasia, dalla visione anche futuristica diciamo, ti saresti mai aspettato di vivere realmente una situazione del genere nel 2020, non nel 2089 o nel marzo del 2087….?
«L’ho sempre immaginata e, per un periodo, molte volte l’ho sognata. ‘Malamorenò’ è un pezzo del 2010 e che quindi ha più di dieci anni ma anche, più recentemente, “Gaia”, scritta sempre per Arisa, racconta di quest’argomento. Io penso che viviamo in un pianeta che vive insieme a noi: se si vuole scrollare di noi, che le stiamo sull’epidermide, lo fa. Gli autori, in generale, sono più attenti alla vita e come tale noto delle cose che mi portano a credere che, in questo momento, la Terra è come se avesse la febbre e che, come tutti gli esseri viventi fanno, sta scatenando le proprie difese immunitarie. Noi uomini siamo i parassiti della Terra certe volte».
Se dovessimo trovare un aspetto positivo da tutta questa situazione, in cosa lo individueresti?
«Nel valore del contatto umano che oggi stiamo scoprendo e nel fatto che, di fronte ad un virus, non ci sono differenze che reggano: è molto più democratico di noi in un certo senso. Fino a poco tempo fa facevamo stare le persone ferme sui barconi nel Mediterraneo convinti che ci portassero malattie mentre, invece, questo virus ci ha raggiunto in business class. Prima di fare un’azione così repentina e drastica nei confronti di un altro uomo dovremmo sempre stare attenti e mi auguro che questa lezione durissima ci faccia capire molte cose che finora abbiamo ignorato».
E’ prematuro parlare di conseguenze precise, ma quale impatto emotivo pensi che avrà tutto questo sulle nostre vite? Ne usciremo davvero migliori come dicono?
«Io credo che subito dopo la fine di tutto questo dovremmo affrontare un processo psicologico importante. La gente dovrà superare la paura del contatto, dello stare vicino all’altro prima di tornare ad un concerto o di andare al cinema come prima. Il tutto dipende, ovviamente, da quanto durerà ancora questa emergenza. Saremmo, forse, migliori a livello empatico verso gli altri uomini ma, dentro di noi, avremmo molte più paure perché questo virus ci ha fatto capire quanto siamo piccoli».
“Berlino” anticipa l’uscita del tuo prossimo album di inediti, cosa dobbiamo aspettarci a riguardo?
«E’ un album molto ricco. Non ho ancora terminato di registrare le voci perché questa clausura mi sta impedendo di andare in studio e chiudere gli ultimi tre pezzi. Nel disco ci saranno tredici canzoni in cui non mancheranno elementi del mio futurismo abituale ma anche richiami di politica, filosofia, famiglia e amore».
In tutto questo stai anche continuando a scrivere per altri interpreti? Perché è un po’ che non ti si vede in veste di autore…
«Si, sto scrivendo anche per altri però per scaramanzia non faccio ancora nomi».
Per concludere, alla luce di tutto quello che ci siamo detti, sono curioso di chiederti se c’è una lezione, un particolare insegnamento che hai appreso dalla musica in questi anni di attività?
«Ho imparato che la musica è un’onda sonora che investe un corpo fatto di acqua e per questo quando tocca le vibrazioni giuste porta con sé un potere taumaturgico di guarigione impressionante».
Nico Donvito
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