Il tema dell’attesa raccontato dai testi delle canzoni
Il tempo della vacanza comincia a diventare ricordo e inizia quello dei buoni propositi, in cui capita di chiederci, come i Lùnapop, “cosa mi aspetto dal domani?”. Per difenderci dalla nostalgia, tendiamo a programmare la prossima stagione con una dettagliata tabella di marcia, che ci tenga al sicuro dal pericolo della noia e ci aiuti ad affrontare il tempo dell’attesa; quel vuoto cosmico e, tante volte, comico, a cui proprio non sappiamo dare nemmeno un nome.
Per questo, vogliamo provare a definirlo attraverso i testi delle canzoni. Giorgio Gaber ce lo dice che “l’attesa è una suspense elementare È un antico idioma che non sai decifrare È un’irrequietezza misteriosa e anonima È una curiosità dell’anima”, ma “l’attesa è il risultato, il retroscena Di questa nostra vita troppo piena È un andar via di cose dove al loro posto C’è rimasto il vuoto”. Spesso, preferiamo il pieno al vuoto, che temiamo e rifuggiamo a gambe levate, per la sua associazione con la mancanza e l’assenza. Quando, invece, potremmo fare il contrario: “no, non muovetevi”, dato che, in questi momenti, “c’è un’aria stranamente tesa E un gran bisogno di silenzio Siamo tutti in attesa”.
A quanto pare, nonostante appaia come un pasticcio di parole, nell’attesa dovremmo ‘semplicemente’ aspettare? Sono d’accordo i Madreblu, che “aspetto qui, aspetto Il temporale aspetto Che questo caldo arrivi alla fine Non riesco a dormire Aspetto qui, aspetto Il temporale aspetto Che questo caldo arrivi alla fine E mi faccia dormire”. Sarà più bella la sorpresa di una novità o di un nuovo incontro, tanto da poter cantare con Francesco Renga, “penso che forse non te l’ho mai detto Ma era una vita che ti stavo aspettando (…) Mentre ti guardo sognare, io penso Era una vita che ti stavo aspettando”… Ammettiamolo, però, detta così, sembra tutto molto facile e lineare, senza dubbi e ripensamenti.
Riteniamo più a fuoco le parole di Madame e Sfera Ebbasta “ne vali la pena, forse Mi aspetto nulla, però dammi tutto C’è quell’intesa dagli occhi Potrei pure farti felice”, per quell’avverbio ‘forse’ e l’uso del condizionale ‘potrei’ a fare dell’incastro amoroso un’ipotesi possibile, ma non così romanticamente scontata. A questo si aggiunga un altro aspetto molto interessante nella scelta testuale: l’uso verbale ‘mi aspetto’. Nelle circostanze in cui c’è almeno un’altra persona a essere coinvolta, l’attesa si fa aspettativa e il verbo ‘aspettare’ si trasforma nel riflessivo ‘aspettarsi’ o ‘mi aspetto’, cioè pongo una serie di condizioni che mi auguro si verifichino nella relazione con l’altra/o per confermarla e viverla appieno o mandare tutto all’aria, come fa Loredana Bertè quando chiede, senza mezzi termini, “che cosa vuoi da me? Che cosa vuoi da me? Cosa ti aspetti tu da me? Che tanto non lo sai Tanto non lo vuoi Quello che cerchi tu da me”. Perché, lo sappiamo bene, le paure nelle attese sono sempre in agguato, prima, fra tutte, quella della solitudine.
Così, se Marco Mengoni, “io ti aspetto e nel frattempo vivo Finché il cuore abita da solo Questo cielo non è poi leggero Strade che si uniscono davvero Possono poi diventare un filo Senza te io sono ciò che ero”, sono più crude e realistiche Le Vibrazioni, “aspettando Il ciclo di stagioni che è sempre uguale Aspettando Di rimanere un’altra volta da solo Solo, solo come uno stupido cane (cane) Cani che Stanno peggio di me, tutto il giorno aspettandomi”. Il testo apre anche a un altro aspetto nella semantica dell’attesa: la sua associazione alla ciclicità del tempo, scandito dalle stagioni e dagli elementi della natura.
Questo, sia quando si nutre la speranza di un ritorno , come per Irama “se sarai vento, canterai Se sarai acqua, brillerai Se sarai ciò che sarò E se sarai tempo, ti aspetterò Per sempre (…) Dove ogni anima ha un colore Ed ogni lacrima ha il tuo nome Se tornerai qui, se mai, lo sai che Io ti aspetterò”, sia quando non si vuole più restare ad aspettare, come Gianmaria Testa, “non ti aspetto più Neanche se quando ritorni Ritornasse un’altra estate Non ti aspetto più È passato molto tempo Le mie stagioni sono già finite Non ti aspetto più E vado via da qui Oltre questo ponte Un altro ponte E ancora un fiume E un altro fiume ci sarà (…) Oltre l’orizzonte Un altro mare (…) Ci sarà”.
Emerge, dunque, un atteggiamento quantomeno ambivalente e opposto circa il modo di rispondere alle attese nelle relazioni: da un lato “io camminerò, tu mi seguirai Angeli braccati noi Ci sarà un cielo ed io lavorerò Tu mi aspetterai E una sera impazzirò Quando mi dirai che un figlio avrai, avrò”, canta Umberto Tozzi, insieme rassicurante e pronto a condividere il futuro incerto con “sciogli i dubbi e i capelli tuoi Perché sei così bella se non sai quello che vuoi Io d’amore ti vestirò Ma non mi domandare dove ti porterò”; dall’altro lato Fabio Rovazzi, risoluto e leggero, “aspetta che ti mostro il ca’ che me ne frega” Il ca’ che me ne frega Aspetta che ti mostro il ca’ che me ne frega”. E se proprio consolazione non si trova, resta la musica a farci compagnia e a curare le ferite.
La invoca Neffa “Rapiscimi, musica colpisci al cuore boom cha boom cha Però non c’è dolore distendi le tue mani guaritrici su un guaglione Mentre sta aspettando il sole… Oggi non c’è sole intorno a me Salvami, risplendi e scaldami Voglio il sole Cerco nuova luce nella confusione di un guaglione…”. Luce e ulteriore chiarezza ricaviamo dal testo di Eugenio Finardi, che ci regala la sintesi delle attese: “sono qui che sto aspettando Non so come, cosa e quando Senza sogni sto cadendo E mai niente sta cambiando E siamo qui, Aspettando Aspettando, solo te” e ci conforta che vale sempre la pena viverle, perché “ho bisogno di rispetto, di pace e tranquillità Del calore di un affetto e di un po’ di serenità Di avere un ruolo e un posto nella società E sicurezza nel futuro”.
Francesco Penta
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