venerdì 22 Novembre 2024

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In autunno, mi fanno compagnia certe canzoni sulla campagna

Tutti i testi delle canzoni che hanno raccontato la campagna

Ci sono canzoni che aprono le porte a un immaginario collettivo, fatto di riti e simboli senza tempo. Così, l’ultimo singolo di Niccolò Fabi, “sono un toro di aratro e di arena”, ci apre a un tema bucolico, tanto caro alla musica italiana. Animale mitologico e sacro in Mesopotamia e in Egitto, il toro viene addomesticato come lavoratore della terra per la sua pazienza e resistenza, “la mia pena è amar la fatica Il mio cuore sta spento in discesa Si accende solo in salita”. Usato, fin dall’antichità, nelle corride, “mentre chino la mia testa alla spada Io lo so che faccio parte di un rito Che da secoli aiuta gli ometti A nutrire gli ormoni A sentirsi padroni, a sentirsi padroni”, rimane intatto il suo legame con la campagna “e la terra è il mio segno, è la mia casa A lei devo la mia sola certezza La misura di ogni mio passo La mia destinazione Fino alla fine, fino alla fine”.

Contrapposta alla città fredda e nevrotica, la campagna è il posto dove si desidera ritornare, soprattutto, quando si è nati e cresciuti come Toto Cutugno, che la celebra nel suo “voglio andare a vivere in campagna, ah ha Voglio la rugiada che mi bagna, ah ah (…) Voglio ritornare alla campana, ah ah Voglio zappar la terra e fare la legna, ah ah (…) Io che sono nato in campagna, ah ah Ricordo nonno Silvio e la vendemmia, ah ah (…) Rivoglio il mio paese, la chiesa, le case E la maestra che coltivale sue rose Rivoglio il mio paese, la vecchia corriera Che risaliva lenta sbuffando a tarda sera (…) quella gente che respira amore E quello stagno che per noi bambini sembrava il mare (…)la giostra il barbiere E il dottore di tutti, il prete e il carabiniere Ma è solo un sogno e niente più Che bella la mia gioventù”.

Ugualmente, Angelo Branduardi, anche se “è diventato Il primo fra i poeti del Paese Ed ora in scarpe verniciate E col cilindro in testa egli cammina”, mantiene intatta la sua matrice agreste perché “sopravvive in lui la frenesia Di un vecchio mariuolo di campagna (…) Sembra quasi che l’acero si curvi Per riscaldarsi e poi dormire Dal nido di quell’albero, le uova Per rubare, salivo fino in cima (…) Mi sono cari i miei furti di monello Quando rubavo in casa un po’ di pane E si mangiava come due fratelli Una briciola l’uomo ed una il cane”.

Nei Bandabardò, persiste la netta differenza fra un “io sto in città Cemento, palazzoni e cartelloni Di pubblicità In macchina su e giù Lottando per lo più con l’orologio Che va che va che va” e la consapevolezza che “felicità Non sei in città”. Se “la civiltà è bella”, infatti, ci sono mille ragioni per dire “viva la campagna”: “tutti questi grilli, birilli, cavalli, coltelli Mulini, bambini, tacchini, pulcini Casette, cosette, forchette, saette Tramonti, racconti, bisonti, rimpianti Castagne, lasagne, lavagne, montagne Ombrelli, fratelli, cartelli, caselli Bestiame, pollame, catrame, legname Fragori, fattori, pittori, rumori Patate affettate, posate scappate Fontane, cantini, cartoni, fornelli E belli i piselli, un arcobaleno Sereno l’odore del fieno Il canto corale di 1000 cicale Un bianco puledro, un fiore di cedro E stelle più grandi più grandi più grandi”.

Già Beniamino Gigli cantava che “se vuoi goder la vita” era necessaria “una casetta in campagna Un orticello, una vigna Qui chi vi nasce, vi regna, non cerca e non sogna la grande cittá”. Non potendola abitare stabilmente, la campagna delle canzoni si fa luogo ideale per una gita fuori porta e complice di giochi familiari, come leggiamo in Gianni Morandi, “mannaggia! Possibile che tutte le volte che andiamo in campagna Con la roulotte comincia a piovere E i miei figli mi dicono: Gli animali non hanno ombrello E non portano mai il cappello Piove tanto e si son bagnati Sono già tutti raffreddati Che si fa? Chi li aiuterà? Quel gufo con gli occhiali che sguardo che ha (…) La lepre in tuta rossa che corse che fa! (…) Quel canarino si è ferito e non lo lascio qua (…) Lo prendo se vuoi, così guarirà Quel ghiro dormiglione sbadiglia di già (…) Quel topo campagnolo trasloca in città Prendilo, prendilo papà! Si!”.

Un nostalgico Enrico Nigiotti ricorda il rapporto col nonno e “quanto è bella la campagna e quanto è bello bere vino Quante donne abbiam guardato abbassando il finestrino La ricchezza sta nel semplice, semplice Nel semplice sorridere in un giorno che non vale niente”. Paolo Conte, invece, ci racconta la storia del ciclista Giovanni Gerbi, soprannominato “Diavolo Rosso”, con un affresco campestre in cui “guarda le notti più alte Di questo nord-ovest bardato di stelle E le piste dei carri gelate Come gli sguardi dei francesi Un valzer di vento e di paglia La morte contadine Che risale le risaie E fa il verso delle rane e puntuale Arriva sulle aie bianche Come le falciatrici a cottimo (…) Voci dal sole, altre voci Da questa campagna altri abissi di luce E di terra e di anima, niente (…) Questo buio sa di fieno e di lontano E la canzone forse sa di ratafià”.

Quanti amori nascono nel verde dei prati o nel marrone dei campi? Per esempio, quello di Adriano Celentano per “Viola Soli nella campagna Viola Col vento che ti spettina un po’ Stesa sul fieno mentre il sola va giù (…) Vero come la campagna Il nostro grande amor La rugiada all’alba bagna I nostri corpi, uniti in un fior Una stella sul prato sei tu”, o di Umberto Tozzi per la sua “Gloria”, che diventa “chiesa di campagna (…) Per chi accende il giorno E invece di dormire Con la memoria torna A un tuffo nei papaveri In una terra libera Per chi respira nebbia Per chi respira rabbia”.

Metafora per chi si smarrisce nei sentimenti, la campagna di Emma racconta quelle volte in cui “capita di credersi una quercia Di una grande e ricca foresta E poi scoprirsi una pianta Di un giardino di campagna Capita di perdersi Anche quando si conosce a memoria il percorso e ritrovar la pace Solamente tra le braccia tue”; o i dissidi amorosi di Jovanotti, mediante elementi paesaggistici contrapposti, nel suo “siamo andati al mare e mi parlavi di montagna Abbiamo preso una casa in città e sogni la campagna Con gli uccellini le anatre e le oche I delfini I conigli le api I papaveri e le foche E ogni tanto ti perdo o mi perdo nei miei guai”, certo che, anche se “ho lo zaino già pronto all’ingresso ma poi tanto tu già lo sai Che ritorno da te”.

La campagna si fa contraddizione estrema, quando si è costretti a viverla solo per il duro lavoro e, a seconda del ruolo sociale, cambia del tutto la sua percezione. Ce lo racconta Napoli Centrale, “campagna, campagna Comme è bella ‘a campagna Ma è cchiù bella pe’ ‘o padrone Ca se enghie ‘e sacche d’oro E ‘a padrona sua signora Ca si ‘ngrassa sempre cchiù Ma chi zappa chesta terra Pe’ nu muorz’ ‘e pane niro Ca ‘a campagna si ritrova D’acqua strutt’ e culo rutto (…) È cchiù bella pe’ ‘e figlie Do padrone della terra Ca ce vene sulamente Cu ll’amice a pazzià Ma po’ figlio do bracciante ‘A campagna è n’ata cosa ‘A campagna è sulamente Rine rutt’ e niente cchiù”.

Certamente, siamo d’accordo con Gio Evan sulla necessità di “una cosa come tornare a frequentare le campagne A maggio per i ciliegi, agosto per le mele, novembre castagne Dicembre le nevi, che sono le ultime a sciogliersi Una cosa come capire che la campagna ha sempre un evento imperdibile Vorrei con te questo Una cosa che la racconti in giro e suona semplice semplice Ma che oggi come oggi è una grande rivoluzione” e magari anche solo per dirci, insieme ai Pooh, “buonanotte domenica di campagna e malvasia metto un filo di musica per la nostra fantasia”.

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Francesco Penta

Appassionato della parola in tutte le sue forme; prediligo, in particolar modo, la poesia a schema metrico libero. Strizzo l'occhio all'ironico, all'onirico e al bizzarro. Insieme alla musica sia la parola. Dopo la musica si ascolti il silenzio; da questo "vuoto sonoro" nasca un nuovo concerto.