Jacopo Martini: “La musica mi insegna a scoprirmi ogni volta” – INTERVISTA

A tu per tu con Jacopo Martini per parlare del suo nuovo Ep “Canzoni”, disponibile dallo scorso 16 maggio. La nostra intervista al cantautore classe 1995
Tempo di nuova musica per Jacopo Martini, giovane artista che con il suo nuovo Ep “Canzoni” (Zefiro Records / Island Records / Universal Music Italia) ha messo a nudo la sua essenza musicale e personale.
Dopo anni di esperienze internazionali e di un percorso artistico sotto lo pseudonimo di Jacopo Planet, Martini firma finalmente con il suo vero nome, portando con sé una scrittura intima e sincera, capace di mescolare eleganza, ironia e una profonda urgenza creativa.
“Canzoni” è un ritorno alle radici: un progetto artigianale, registrato in casa con chitarra, clarinetto e tamburi, che racchiude storie di vita e di emozioni universali. Nell’intervista, l’artista racconta la nascita di questo disco, le ispirazioni sonore che lo hanno guidato e le emozioni che lo accompagnano in questo nuovo inizio.
Intervista a Jacopo Martini
“Canzoni” è un titolo tanto semplice quanto dichiarativo. Cosa ti ha spinto a sceglierlo come nome del tuo nuovo Ep?
«Ho voluto scrivere delle canzoni in risposta a quello che ho sentito intorno a me negli ultimi anni e anche a quello che ho prodotto io sotto il mio pseudonimo di Jacopo Planet. Ho cominciato la musica a 13 anni, scrivendo proprio delle canzoni e questo EP è un ritorno alle radici. Il titolo è venuto da solo».
Come si è sviluppato il processo creativo di questo progetto?
«Erano anni che volevo comprare una chitarra romantica. In primis per l’estetica un pò particolare (mi sembra una donna con un baffo) e per la storia che porta con sé. Volevo uno strumento ‘speciale’ e che fosse il mio, e volevo che rappresentasse la tradizione della canzone europea essendo del fine ‘800. Poi ho cominciato con Maremma amara, che è una canzone popolare che contiene tantissime cose: la toscana, il lutto, il ricordo…
E da quel brano ho cominciato a scrivere, perché volevo fare un disco intero. Mi sono ispirato dal mondo musicale degli anni 50 italiani, dalla musica popolare europea e dai 60s e 70s americani. Sono dei linguaggi con i quali sono cresciuto (Murolo, Modugno, Caterina Bueno ma anche Jack Johnson e Van Morrison o anche Alan Lomax). Penso poi che queste canzoni fossero già presenti nella mia testa da qualche parte e sono quasi tutte uscite volecemente dopo Mille bugie che è stata la prima.
In un mese ho registrato tutto a casa in camere da letto con la chitarra, il clarinetto (strumento che mi porto dietro da tempo) e dei tamburi. Per qualcosina poi ho invitato altri musicisti. Cosi sono nate le canzoni».
A livello musicale, che tipo di lavoro c’è stato dietro la ricerca del sound?
«Per il sound ho seguito il mio istinto suonando ogni strumento quasi sempre in una sola tratta. Le ispirazioni qui erano l’organicità dei primi dischi di Devendra Banhart, la musica di Timber Timbre, ma anche un po gli arrangiamenti di Randy Newman (il compositore di Toy Story) o le chitarre di Roberto Murolo. Mi piaceva immaginare che le canzoni fossero suonate insieme ad altre persone, tutte in una specie di ‘barn’. Adesso che lo riascolto trovo che sembri un disco “scordato”, qualcosa che è stato ritrovato in cantina – che nessuno aveva pubblicato all’epoca».
Dal punto di vista tematico, invece, cosa hai avuto l’esigenza di raccontare?
«Da un punto di vista tematico, visto che lo scopo era di fare un disco che piacesse in primis a me, credo che quasi tutti i brani parlino di sensazioni personali. Sono storie mie di vita. Alla fine queste canzoni sono ancorate nel mio proprio percorso emotivo e umano. Forse in questo caso mi sono afferrato al concetto che ‘la cosa più intima è la cosa più universale’».
Racconti che a un certo punto, mentre scrivevi, pensavi che queste canzoni sarebbero piaciute solo a te. E invece poi qualcosa è successo. Che effetto fa ricevere i feedback di chi si riconosce nelle tue stesse emozioni?
«È stato inaspettato. Nel passato ho provato a trovare ‘formule’ per piacere o per nascondere certi aspetti di chi sono. In questo caso ho fatto quello che volevo, e ha attratto delle bellissime energie. Non è detto che funzioni sempre o per tutti. Comunque è una bella sensazione quella di sentirsi capiti ma cè (ovviamente) ancora tanta strada da fare».
Hai lasciato alle spalle pseudonimi e maschere per firmare finalmente con il tuo vero nome. Che significato ha per te questo passaggio?
«Mi ha fatto abbastanza paura li per li. Ma adesso che sono usciti i primi brani di questo percorso mi rendo conto che la mia carriera per certi versi comincia adesso».
Nella tua musica convivono mondi diversi, quanto è importante per te la sperimentazione?
«Non l’ho mai considerata consciamente “sperimentazione”. Ho ascoltato tanti generi diversi e mi lascio influenzare da cose belle qualsiasi esse siano. Quando creo faccio quello che corrisponde al momento, in cui credo li per li. Quello che per me è coerente. Non lo faccio mai per sperimentare veramente. Non apposta. Almeno non credo».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«Onestamente, non ne ho la minima idea. È proprio quella la figata, cioè che ogni volta che si lavora su un progetto uno scopre qualcosa in più su se stesso».