giovedì 21 Novembre 2024

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Johnson Righeira: “Formentera? Il mio ritorno alle origini” – INTERVISTA

A tu per tu con l’artista torinese, fuori con il singolo estivo “Formentera” realizzato con i La Bionda

Tempo di nuova musica per Stefano Righi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Johnson Righeira, voce e fondatore dello storico duo musicale che negli anni ’80 ha di fatto dominato le classifiche per diverse settimane, talvolta anche per intere stagioni. A trentasei anni distanza dal clamoroso successo di “Vamos a la playa”, l’artista torna a collaborare da solista con i fratelli La Bionda, assoluti protagonisti dell’italo-disco che ha fatto letteralmente scuola in giro per il mondo. “Formentera” è il titolo della nuova proposta per l’estate 2019, disponibile negli store digitali e su tutte le piattaforme streaming a partire dallo scorso 21 giugno.

Ciao Stefano, partiamo dal tuo nuovo singolo “Formentera”, che sapore ha per te questo pezzo?

«Il sapore di un ritorno alle origini, perché c’è stato il desiderio di tornare a lavorare con i fratelli La Bionda, insieme abbiamo condiviso momenti piuttosto importanti della carriera dei Righeira. Visto che da quattro anni sono tornato solista, come nei miei esordi, ho pensato di  rifare qualcosa con loro. “Formentera” rappresenta per me la quadratura di un cerchio, essendo un’isola che frequento da dodici anni, soprattutto nei periodi lontani dal turismo di massa, vado sempre fuori stagione perché mi sono innamorato di quel posto, un amore sincero che ho voluto inserire in questa canzone».

A 36 anni di distanza dal successo mondiale di “Vamos a la playa”, si ricongiunge il sodalizio con i La Bionda. Com’è stato ritrovarsi?

«Negli anni ci siamo sentiti e frequentati, quando ci si conosce così bene tutto viene in maniera molto spontanea e naturale, anche se passa del tempo dall’ultima volta che ci si è visti. Tornare a lavorare con loro è stato bello, insieme abbiamo cercato di ritornare ad un sound che, oggi come oggi, un po’ mancava nell’ambito della musica italiana, ispirato agli anni ’80 ma attualizzato alle sonorità e alle dinamiche attuali».

Se oggi utilizziamo così comunemente la parola “tormentone”, possiamo dire che la colpa o la responsabilità (a seconda dei punti di vista) è in parte anche tua. Secondo te, come si è evoluto negli anni il mercato delle hit estive?

«Così dicono, è un processo indiziario, mancano le prove (sorride, ndr). A parte gli scherzi, ho recentemente visto un servizio che parlava di tormentoni di quest’estate; ascoltati uno dietro l’altro mi sembravano tutti molto simili, sono tutti un po’ tendenti a questa cadenza reggaeton, un genere che personalmente aborro, se vuoi farmi venire degli sfoghi cutanei fammi sentire una cosa del genere. “Formentera” si distacca da tutto questo e torna ad uno spirito che era quello iniziale, seppur aggiornato musicalmente ai tempi che corrono.

Negli anni ci sono stati tormentoni interessanti, da “Sofia” di Alvaro Soler a diverse recenti proposte di Giusy Ferreri. Il problema è che i tormentoni, oggi, si prova a farli a tavolino, riciclando magari qualcosa che è già andato bene, lo trovo un modo rassicurante di proporre la propria musica. Il merito dei Righeira è quello di essere riusciti a ottenere un grande successo nell’immediato e di aver lanciato alcune canzoni, mi riferisco in particolare a “Vamos a la playa” e “L’estate sta finendo”, che sono entrate nella memoria collettiva del pubblico, durando nei decenni, diventando classici di ogni estate e non di una in particolare».

Cosa ne pensi dell’attuale settore discografico e, in particolare, della trap?

«Sai, la trap in qualche maniera è una sorta di punk del rap, una sorta di reset musicale, anche se trovare qualcosa di completamente nuovo o innovativo è praticamente impossibile. Ci sono rappresentati di questo genere che reputo molto interessanti, altri piuttosto imbarazzanti, non sopporto il dover cantare a tutti i costi con l’autotune, è uno strumento che viene troppo abusato, al punto da non riuscire a riconoscere una voce da un’altra. Insomma, c’è gente brava e gente meno brava, il futuro sarà come sempre l’unico giudice.

Il problema dei ragazzini di oggi, secondo me, è che non hanno una grande cultura musicale generale rispetto al passato, non credo che chi fa trap conosca il rap old school anni ’80 di Kurtis Blow o Grandmaster Flash. Sai, la musica presuppone che uno vada a sentirsi anche quello che è successo in passato, da ragazzino ero curioso di sentire Alberto Rabagliati, Natalino Otto e Fred Buscaglione. C’è bisogno di guardare indietro, scavare e trovare influenze per contaminare, trovare cose diverse e far uscire qualcosa di nuovo».

Una volta un tuo collega mi ha fatto notare come di recente, soprattutto nella scena indie, ci sia questo prepotente utilizzo delle sonorità anni ’80, magari con meno synth e arrangiamenti più minimali. Non trovi strano che se un artista di quel decennio si ritrova a riproporre quel sound venga etichettato “vintage”, mentre se lo fa un esponente contemporaneo risulta un figo?

«Hai veramente centrato il punto focale, nel nostro Paese c’è la tendenza a considerare “vecchi” artisti che hanno tuttora qualcosa da dire, non saprei dirti per quale motivo, secondo me è una caratteristica proprio italiana, una mancanza di rispetto generale nei confronti della musica. Lo si percepisce ascoltando quello che passa oggi, le cose più interessanti faticano a dispetto delle “cagate”. Personalmente continuo a seguire la scena underground indipendente, soprattutto i gruppi più vicini a me per stile o per gusto personale; ho collaborato recentemente con Nevruz, Francesco Guasti, I Pesci, Megha e, a breve, anche con un gruppo molto interessante che si chiama Fitness Forever. Con tutti questi giovani ragazzi si instaura un rispetto e una stima reciproca, oltre che una sana voglia di fare buona musica, roba che i discografici, i direttori artistici delle radio, hanno perso assolutamente».

“Vamos a la playa”, “No tengo dinero” e “L’estate sta finendo” sono soltanto alcuni dei brani intramontabili entrati nella memoria collettiva di intere generazioni. Che ricordi conservi di quel periodo straordinario?

«Guarda, la verità è che mi ricordo abbastanza poco, anche perché in quel periodo stavo svolgendo il servizio di leva, per cui ho vissuto il primissimo successo in modo un po’ ovattato. Pensa che andavo in licenza per fare le ospitate televisive, dopo aver cantato “Vamos a la playa”, stretto mani e firmato autografi me ne tornavo in caserma e il giorno seguente era di nuovo un “attenti-riposo” continuo. Quando ho finito il militare mi sono accorto praticamente che la mia vita era cambiata, senza il tempo nemmeno di accorgermene».

L’unico highlander delle manifestazioni canore è Sanremo, al Festival hai partecipato nell’86 con “Innamoratissimo”, cosa ti ha lasciato quell’esperienza?

«Beh, Sanremo non morirà mai. E’ stata un’esperienza caotica, al Festival succedono tantissime cose in pochissimo tempo, per cui i ricordi sono molto vaghi, sicuramente lo considero un delirio, pensa che all’epoca c’erano soltanto tre serate, quindi era ancora tutto più concentrato. Salti da un’intervista all’altra, hai poco tempo per le prove, non hai nemmeno il tempo per mangiare, però se dovessi avere la canzone giusta un pensiero lo farei, perché rimane comunque la vetrina più importante che abbiamo, l’unica».

Riguardo le altre manifestazioni estive, tipo il Festivalbar, credi che manchino all’attuale sistema musicale?

«A me personalmente il Festivalbar manca molto, oltre che di promozione era anche una grande occasione di divertimento, perché ti ritrovavi con altri artisti, facevi bisboccia insieme, tuttora è molto bello ritrovare i colleghi con cui abbiamo vissuto a pieni polmoni quegli anni. Questo genere di manifestazioni a me mancano, non so se è così anche per la gente, ma non credo, perché altrimenti le rifarebbero».

Non so se hai seguito “Ora o mai più”, ci parteciperesti?

«Non l’ho guardata e non ci parteciperei».

In sintesi, pensi che sia cambiato più il pubblico o il mercato?

«Il mercato è scomparso, le nuove tecnologie hanno cambiato completamente il modo di fruire la musica, con l’avvento degli smartphone tutto è passato tra le mani dei ragazzini, lo dicono i numeri, cifre che non mi convincono molto, perché quando vedi che Sfera Ebbasta su YouTube ha 1 milione e mezzo di iscritti al suo canale e una media di venticinque milioni di visualizzazioni a videoclip, c’è qualcosa che non mi torna».

Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di attività?

«L’insegnamento più importante che mi ha dato la musica è l’emozione, il piacere di cantare davanti al pubblico. Sai, essendo partito completamente da zero, mi sono costruito con gli anni attraverso l’esperienza dei live. La lezione che ho imparato è riuscire a provare qualcosa di forte anche eseguendo canzoni che ho cantato un milione di volte, capita di emozionarmi spesso con la versione lenta de “L’estate sta finendo”. Questo è il motivo che mi spingerà a fare sempre musica perché è fantastico, è veramente una sensazione intensissima, intensificato dal rapporto che si crea sul palco con le persone che ti ascoltano dal vivo».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.