Laila Al Habash: “Il coraggio è imprescindibile” – INTERVISTA

Laila Al Habash

A tu per tu con il Laila Al Habash che si racconta in occasione dell’uscita del nuovo disco “Tempo”. La nostra intervista alla cantautrice italo-palestinese classe ‘98

Cantautrice pop tra le più raffinate e internazionali della nuova scena italiana, Laila Al Habash torna con “Tempo” (Undamento under exclusive license M.A.S.T./Believe), il suo nuovo album disponibile dallo scorso 24 ottobre. Nata a Roma da padre palestinese, Laila unisce nella sua musica l’italiano, l’inglese e l’arabo, fondendo eleganza cantautorale e sensibilità cosmopolita.

Scelta da Spotify Radar Italia e Amazon Music Breakthrough Italia, è stata ambassador della playlist EQUAL con un billboard a Times Square, ha aperto i concerti dei Coldplay e di Lana Del Rey, e ha portato la sua musica in tour in Brasile, Germania, Emirati Arabi e Marocco.

Nel nuovo disco riflette sul valore e sull’uso del tempo, tra nostalgia e consapevolezza, tra fragilità e rinascita. Abbiamo incontrato Laila Al Habash per parlare di questo nuovo lavoro, delle sue icone Mina e Raffaella Carrà, del coraggio che la musica insegna e dello sguardo lucido con cui osserva ciò che la circonda.

Laila Al Habash presenta il disco “Tempo”, l’intervista

Romperei il ghiaccio chiedendoti del processo creativo di questo lavoro che è partito da un sogno…?

«Sì, la genesi di questo disco è stata veramente strana. Prima di avere le canzoni, sapevo il titolo. L’ho sognato. Non c’era ancora nulla, ma sapevo che si sarebbe chiamato “Tempo”, perché è una cosa che abbiamo tutti ma che nessuno sa spendere bene. Oppure dicevo: è qualcosa che abbiamo tutti, ma non ce l’ha mai nessuno. Era il 2022 e mi sono annotata questa frase. Poi, quella suggestione è diventata una bussola per tutto il disco, che infatti ruota molto intorno al rapporto col tempo».

Come descriveresti il tuo rapporto con il tempo?

«Molto strano. Fin da piccola mi sentivo fuori luogo rispetto all’età che avevo: mi dicevano che sembravo più grande, e in effetti sono cresciuta in una casa piena di adulti, ero la più piccola di tutti. Quindi ho sempre frequentato persone più grandi, ma allo stesso tempo faticavo a sentirmi presa sul serio. Questa sensazione si è acuita con il tempo, finché non ho deciso di lavorarci su: volevo sentirmi a mio agio nella mia pelle e anche con il tempo corrente. Sono molto nostalgica, anche di epoche che non ho vissuto. Ma osservare come mi muovevo nel tempo mi ha aiutata a riallinearmi».

Guardando al tuo primo EP “Moquette” del 2021, quali skill pensi di aver acquisito e raffinato in questi anni?

«Posso dire… la voce. La voce è lo strumento che ho imparato a conoscere di più. All’inizio la usavo in modo istintivo, adesso mi diverto molto di più, sono più consapevole e la maneggio meglio. Ho una voce più matura. Inoltre, sento che ogni volta che faccio musica affronto delle sfide, perché non esistono regole, è tutto trasversale. La musica è come un kebabbaro la sera tardi: ci trovi di tutto».

Sei nata nel 1998, ma hai dichiarato di amare Mina e Raffaella Carrà. Cosa ti affascina del loro modo di fare musica?

«Non sono cresciuta in una casa con genitori super musicali, però Mina e Raffaella Carrà erano presenti. I miei genitori hanno ricordi forti legati a loro e in qualche modo anche io me ne sono innamorata. Mi ha sempre colpito la loro presenza scenica. Erano ingombranti in senso positivo. Mina con la voce, Raffaella con tutto il resto. Due campionati diversi, ma entrambe ipnotiche».

Che tipo di ascoltatori immagini quando scrivi?

«Penso alle persone che stimo. Forse è una forma di “people pleasing”, ma voglio rendere fiere le persone a cui tengo. Non sono sempre musicisti, ma 3-4 persone che ho intorno. A volte penso che scrivo per me e per loro. Non riesco a scrivere pensando al pubblico perché non capisco mai davvero cosa piaccia. La canzone che tutti filmano ai concerti è una che io non ho mai capito fino in fondo».

Sei italiana ma hai origini palestinesi. Come hai vissuto da lontano la situazione mediorientale?

«Prima di tutto, ci tengo a dire che “Medio Oriente” è un termine eurocentrico. Chi lo decide che è “medio”? Noi occidentali? Detto questo, sono stati anni atroci. Anche ora che esce il mio disco, faccio fatica a provare entusiasmo. È dura essere felici mentre vedi immagini di bambini uccisi. La cosa peggiore è l’impotenza. Ho partecipato alle manifestazioni e condiviso contenuti, ed è servito anche a me. Mi auguro che la Palestina possa avere il suo 25 aprile, la sua liberazione. La pace non basta: serve libertà e autodeterminazione. Se è problematico dire che non bisogna bombardare ospedali e uccidere civili, allora il problema non è mio».

Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver imparato dalla musica?

«Il coraggio. Pensavo di essere coraggiosa, ma non avevo ancora fatto la cantante. Serve coraggio per tutto: per fidarsi di sé, per andare sul palco, per affrontare le sfide continue. Nessuno ti insegna nulla, lo scopri da sola, ma il coraggio è imprescindibile».

Scritto da Nico Donvito
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