A tu per tu con l’artista milanese classe ’95, fuori con “Come pioggia” in duetto con Federico Baroni
A tre anni di distanza dalla pubblicazione del suo album d’esordio “A microfoni spenti”, Leo Like torna con il suo secondo tassello discografico intitolato “Il disco che avrei fatto a 8 anni”, un album traghetta l’artista dal rap al cantautorato, attraverso la voglia di riscoprire la semplicità e la trasparenza dell’infanzia. Per accompagnare il progetto, è stata incisa una nuova versione del brano “Come pioggia”, realizzata in compagnia di Federico Baroni (qui la nostra recente intervista). In occasione dell’uscita di questo interessante lavoro che unisce la poetica di un bambino all’interpretazione di un adulto, abbiamo raggiunto telefonicamente per voi il giovane cantautore milanese.
Ciao Leo, partiamo dal tuo nuovo singolo “Come pioggia”, che sapore ha per te questo pezzo?
«Assolutamente estivo, volevo raccontare alcuni degli aspetti che più mi piacciono di questa stagione, come la voglia di fuggire, di staccare la spina e di evadere. Insieme a Federico abbiamo cercato di colorare il brano, rispettando entrambi i nostri stili musicali».
A tal proposito, com’è nata la collaborazione con Federico Baroni e quale valore aggiunto ha dato al risultato finale?
«Io e Fede ci siamo incontrati per caso, lui aveva apprezzato la versione originale, così come io ho apprezzato i suoi ultimi lavori. Mi piace il suo modo di raccontare la musica senza filtri, instaurando un rapporto diretto con il pubblico, molto street e spontaneo. Questa visione ci unisce e ha contribuito a donare una bella sterzata alla canzone, il suo apporto ha vivacizzato il risultato finale, dando nuova linfa alla bridge e al ritornello».
Questo singolo accompagna l’uscita del tuo nuovo progetto intitolato “Il disco che avrei fatto a 8 anni”, come lo descriveresti?
«Il mio percorso è partito dal rap, finora avevo sempre affrontato temi vari, mentre con questo album ho cominciato a fare un ragionamento più melodico, orientandomi verso il pop. A livello testuale ho sentito l’esigenza di sperimentare qualcosa di nuovo, quindi ho cominciato un esercizio di stile per riuscire a raccontare il mondo dei grandi con la penna di un bambino, cercando di trovate tutte quelle situazioni e fotografie nei miei ricordi, esponendole con la semplicità e l’innocenza tipiche dell’infanzia».
Non ti chiederò le differenze, perché sicuramente saranno tante, ma quali sono, secondo te, le analogie tra questo lavoro e il precedente album d’esordio “A microfoni spenti”?
«Questa è una domanda molto interessante, perché quando ho iniziato a lavorare a “Il disco che avrei fatto a 8 anni” ho cercato di cancellare completamente quello che avevo fatto in passato, trovando meno analogie possibili. Credo che l’unica somiglianza sia rappresentata dalla presenza di tematiche diverse, dalla capacità di abbracciare vari argomenti e trovare chiavi diverse per raccontarmi».
Cantautore o rapper, quale delle due definizioni ti rappresenta di più oggi?
«Forse cantautore, ma non le differenzio molto. Il rap è stata per me la scuola più importante, che mi ha permesso di condividere e comunicare con le altre persone, scoprendo diversi tipi di scrittura, metrica compresa, mentre il cantautorato ha più a che vedere con lo storytelling, perché ti permette di sviluppare la tua attitudine al racconto. Reputo entrambi i percorsi necessari per la mia crescita».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come hai incontrato la musica?
«Il mio primo incontro con la musica risale a quando avevo otto-nove anni, ascoltando i cd di mia mamma e di mio papà, che spaziavano dai Genesis ai Pink Floyd. Più avanti al liceo ho cominciato a coltivare la passione per il rap, facendomi tutta una cultura sulla scena anni ’90, fino a che è arrivato “Tradimento” di Fabri Fibra, il disco che ha sdoganato questo genere in Italia. Tra gli ascolti che più mi hanno influenzato cito sicuramente Dargen D’amico, che considero il mio mentore, poi anche Bassi Maestro, Ghemon e Mecna».
Ti senti rappresentato dall’attuale scenario discografico italiano?
«Sinceramente in questo momento poco, perché ultimamente ascolto molto le produzioni estere, quello che va di moda oggi in Italia non mi rappresenta, mi riferisco naturalmente all’indie e alla trap, sia dal punto di vista delle sonorità che dei contenuti. In linea generale molte delle cose che escono non raccontano di me, non rappresentano il mio background musicale».
A livello artistico, credi di aver raggiunto una tua dimensione o ne sei ancora alla ricerca?
«Sicuramente ne sono alla ricerca, perché per me è fondamentale riuscire a proporre sempre qualcosa di nuovo, stravolgendo e ricominciando anche da capo se necessario. Questa è la mia prerogativa, per cui il mio prossimo album sarà diverso da questo, così come lo sarà ancora quello successivo, andando di pari passo con la mia crescita personale».
Per concludere, dove e a chi ti piacerebbe arrivare con la tua musica?
«Cerco di esportare il più possibile la mia musica, mi piacerebbe tradurre qualche mio pezzo in spagnolo visto che da settembre mi trasferisco a Valencia per studio. In genere, l’obiettivo è quello di inglobare sonorità diverse, di culture e Paesi differenti, perché mi piace l’idea di trasportare a livello internazionale il cantautorato all’italiana. Per quanto riguarda il mio target di riferimento, penso di voler continuare a relazionarmi con i miei coetanei, sperando di poter avvicinare sia chi è più grande che le nuove generazioni, anche se è molto difficile, ma la mia ambizione è quella di riuscire ad emozionare a prescindere dall’età anagrafica».
© foto di Elisa Hassert
Nico Donvito
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