Un Libro, Una Canzone: Insieme
Una protagonista che rivendica sé stessa
Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. […] Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore […]. Cerca di capire: non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non è paura di Dio. Io non credo in Dio. Non è paura del dolore. Io non temo il dolore. È paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre […]. Mi sono sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse?
Diritto di esistere, diritto di non esistere, diritto di essere liberi, diritto di essere felici, diritto di non essere giudicati. Di tutto ciò e di molto di più parla Oriana Fallaci nel suo Lettera a un bambino mai nato, dialogo tra una donna ed il figlio non ancora nato ispirato ad un evento simile accaduto alla scrittrice stessa.
In quella che potrebbe essere a ragione descritta come una raccolta di pensieri e riflessioni che la protagonista intesse sul racconto della propria gravidanza, la figura della donna spicca in tutto il suo anticonformismo, il suo pensiero indipendente, il suo rifiuto di ogni superfluo sentimentalismo. Con fierezza la donna rivendica sé stessa e le proprie azioni, la propria gioia e il proprio dolore. Una sola cosa non rivendica mai: la vita, l’esistenza del proprio figlio.
Non appartieni né a Dio, né allo Stato né a me. Appartieni a te stesso e basta. Dopotutto sei tu che hai preso l’iniziativa ed io sbagliavo a credere d’importi una scelta.
Anche quando decide di “rischiare”, di intraprendere quel viaggio tanto desiderato da lei quanto sconsigliatole dal medico, la protagonista lo fa per sé stessa, per la propria carriera e per la propria persona. È una donna d’azione, la sua natura non le permette di fermarsi, e nemmeno la gravidanza la riesce a trattenere ferma in un letto d’ospedale. Dunque si arrabbia. Si arrabbia con il suo bambino non ancora nato, perché la costringe a fare una vita che non desidera. Non ha paura di rimproverarlo, di mostrarsi arrabbiata. Ed ecco dunque la ribellione, l’atto rivoluzionario in un mondo in cui la narrazione della gravidanza e della maternità è sempre stata quella idilliaca e romanticizzata a cui siamo abituati.
Ma cos’è questa vita per cui tu, che esisti non ancora fatto, conti di più di me che esisto già fatta? Cos’è questo rispetto per te che toglie rispetto a me? Cos’è questo tuo diritto ad esistere che non tiene conto del mio diritto ad esistere?
Il monologo della donna qui diviene più una confessione alla propria coscienza. Forse queste sono parole dettate solo da un momento di profondo sconforto, o forse la donna crede veramente a quello che dice. Quello che è certo è che, dopo questo momento, dopo pagine e pagine di un rapporto di amore e odio tra la donna e la sua non ancora nata creatura, la protagonista non cambierà più idea, e partirà per quel viaggio di lavoro tanto atteso quanto temuto.
Il processo
Il punto centrale dell’intera opera è il processo alla protagonista. Colpevole o innocente? Mettendo sé stessa al centro della propria vita e delle proprie scelte, si è davvero macchiata di un crimine così grave? Sette personaggi senza nome compongono la giuria in questo strano incubo: il medico tradizionalista e insensibile, la dottoressa moderna, il padre del bambino, debole e senza certezze, i genitori della donna, la sua amica femminista e il suo datore di lavoro. Tutti espongono le loro idee, schierandosi ora dall’una, ora dall’altra parte. Alla fine, forse, l’unica verità inoppugnabile è quella detta dall’anziana madre della donna:
“Non tocca a noi giudicare, né a voi. Non avete il diritto di accusarla né di difenderla perché non siete dentro né la sua mente né dentro il suo cuore. Nessuna delle vostre testimonianze ha valore”.
Francesco Guccini in Piccola storia ignobile ci parla anch’egli di un aborto. Le circostanze sono differenti, quello della protagonista del libro è un aborto spontaneo, mentre quello della protagonista della canzone no. Entrambe le opere, però, mostrano il dolore provato dalla donna per l’avvenimento in sé e per le accuse che arrivano dalla società.
Mentre l’ironico Guccini compone strofe pungenti come queste,
E pensare a quel che ha fatto per la tua educazione
Buone scuole e poca e giusta compagnia
Allevata nei valori di famiglia e religione
Di ubbidienza, castità e di cortesia
Dimmi allora quel che hai fatto chi te l’ha mai messo in testa
O dimmi dove e quando l’hai imparato
Che non hai mai visto in casa una cosa men che onesta
[…]
Non vedo proprio cosa posso fare
Dirti qualche frase usata per provare a consolarti
O dirti: “È fatta ormai, non ci pensare”
È una cosa che non serve a una canzone di successo
Non vale due colonne su un giornale
Se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
E i politici han ben altro a cui pensare
La Fallaci, dal canto suo, ribatte così ai giudizi nei confronti della sua protagonista:
Ma a chi serve un bambino che muore e una mamma che rinuncia ad essere mamma? Ai moralisti, ai giuristi, ai teologi, ai riformatori? In tal caso c’è da domandarsi chi sfrutterà questa storia e quale sarà il verdetto del loro tribunale. Merito la solidarietà dei più o il vituperio? Ho reso servigio ai moralisti o ai giuristi, ai teologi o ai riformatori?
Rialzarsi
Lettera a un bambino mai nato è la storia di un evento tragico, ma non termina con un tragico finale. La speranza, cercata lungo tutto il romanzo, che ci sia una felicità da ricercare, una gioia da raggiungere, si palesa proprio nelle ultime pagine, proprio nel momento più terribile.
Ho ancora tante cose da fare. Tu non le hai mai incominciate, io invece sì. Ho da sviluppare la mia carriera, ad esempio, e dimostrare che non sono meno brava di un uomo. Ho da battermi contro la comodità dei punti esclamativi, ad esempio, ho da indurre la gente a porsi più perché […]. È arrivato il nostro momento, bambino: il momento di separarci. E non lo voglio. […] Non vorrei. Ma non ho scelta. Se non corro all’ospedale […] mi ammazzi. E questo non posso permetterlo. Non devo. Tu sbagliavi a dire che non credo alla vita, bambino. Io ci credo, invece. Mi piace, anche le sue infamie, e intendo viverla ad ogni costo.
Decisa, ferma, appassionata alla vita, a tratti crudele. Sono molti i modi in cui potremmo descrivere la protagonista. Ma chi di noi, in realtà, ha il diritto di sedere al tavolo dei giurati? La Fallaci ci interroga: “Chi può permettersi di usare uno o tutti questi aggettivi?”. Chi, davanti ad una tragedia come quella narrata, ha il coraggio di esprimere un giudizio sulla condotta della madre?
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