Una canzone, un libro: insieme
“Ogni volta che cerco di dire qualcosa, mi vengono sempre le parole meno adatte, se non addirittura opposte a quelle che vorrei dire. E se cerco di correggermi, mi confondo ancora di piú e peggioro la situazione al punto che alla fine non so piú nemmeno quello che volevo dire. È come se il mio corpo si dividesse in due parti che giocano a rincorrersi. E al centro c’è questa colonna immensa e le due parti continuano a rincorrersi girandoci attorno. Ad afferrare le parole giuste è sempre l’altra parte, e io non riesco a starle dietro.”
Non leggere autori che tutto il mondo conosce è una sfida difficile. Questo per due motivi. Primo, perché ammettere che i gusti del mondo siano simili ai nostri, fa male (chissà perché poi). Secondo, perché alla fine incontri sempre qualcuno che se ne esce con l’elegante ma sempre inopportuna frase “Mi stai veramente dicendo che non hai mai letto Murakami? Ma come è possibile?”, e lì ti senti come un bambino alle giostre emarginato da tutti solo perché non ha preso lo zucchero filato come tutti gli altri. Ma così va il mondo e non lo cambieremo certo per questo.
Così, camminando insieme all’altra autrice di questa rubrica e rivelando la mia contrarietà verso lo zucchero filato, mi sono ritrovato incalzato dalla suddetta autrice con un dispregiativo e sdegnato “Mi stai veramente dicendo che non hai mai letto Murakami? Ma come è possibile?”. Incerto se aspettarmi una scenata o uno sputo come protesta – difatti non avevo letto Murakami, ma l’altra autrice avrà sicuramente metabolizzato “umiliati e offesi” – ottenni invece un libro. Così l’ho letto. Si legge sempre per colmare una ferita, propria o degli altri. Ma anche e soprattutto per evitare sputi.
Se c’è da dire una premessa doverosa su Norwegian wood prima di iniziare è questa: Norwegian wood non è un romanzo. Non per lo meno come lo intendiamo noi occidentali. I romanzi, qui, hanno un eroe ben definito e una missione da compiere. L’eroe deve superare sfide, problemi, confrontarsi con nemici e amici per poi ottenere quello che brama veramente. Poi il suo scopo può essere anche banale o assurdo, per carità, ma sicuramente ne è provvisto. Il giovane Holden non vuole tornare a casa; il barone rampante se ne vuole stare sugli alberi; Acab ha la sua balena e via dicendo. Poi certo, ogni romanzo spazia un po’ ovunque ma le regole base ci sono.
E Norwegian wood?
Norwegian wood è un caso strano.
C’è un eroe, sì. Si chiama Hotaru ed è uno studente in Giappone. Cosa vuole? Poco o niente. Non ha una vera missione, non ha un desiderio ardente, non rinuncerebbe a tutto pur di ottenere qualcosa. In definitiva, un personaggio “normale”. Abbastanza dimenticabile forse ma sicuramente credibile. Affronta le tematiche che a molti ragazzi di vent’anni capita affrontare. L’amore, la morte, l’arte. Tutto però con un certo distacco, perché Hotaru, laddove potrebbe scovarsi un’energia capace di generare storia, fugge. Coi pensieri, fisicamente a volte. Lui fugge. Così che si ritorna a parlare del Giappone, del cibo, della politica e via dicendo. Ma nonostante questo, Norwegian wood ha una forza dentro capace di superare molti preconcetti artistici occidentali riguardo la letteratura. Perché laddove sussiste il difetto di un’assenza di scopo, Murakami disegna una mappa capace di farne il suo ritmo. I personaggi, la storia, tutto quanto si perde via in Norwegian wood. Non a casaccio ma con un ordine che è dolcissimo ammirare. Un sapore che noi occidentali ligi a certi dogmi letterari forse conosciamo poco ma nel quale Murakami ci conduce abilmente.
Così, leggendo, per 400 pagine ti senti una nuvola. Letteralmente una nuvola. Spinta da più venti, sbattendo più volte verso gli stessi ostacoli, dimenticando il posto dove sei partito e dove sei stato. Regna un caos che i personaggi come i lettori faticano a comprendere, e la morte diventa essa stessa storia ed essa stessa che va e e che viene come una nuvola. Si legge Murakami e non si fa altro che perdersi, sempre più a fondo, in un mondo che non conosciamo ma che si fa presto a ricostruirlo col nostro. Perché cerchiamo sempre una trama nelle cose, ma spesso le cose accadono e basta. Esattamente come nella canzone che ha dato il nome al romanzo: Norwegian wood dei mitici The Beatles.
Può capitare di leggere il libro e di chiedersi il senso di quello che si è appena letto. È un errore comune nei lettori. Non credo si possa imparare qualcosa di saggio nella vita, ma di certo Norwegian Wood sottolinea una verità nascosta nel proprio animo che ci ricorda quanto noi siamo nati per liberarci e che viviamo per perderci. E perdersi è un’arte, così come non insegna, ma ricorda, Murakami.
Ora ho un libro in più sul cassetto e posso di nuovo camminare felice per le strade di questo mondo, in modo da essere pronto ad incalzare il prossimo quando se ne presenterà l’occasione. Così che finalmente anch’io potrò prostrarmi indegno verso il cielo con un “Mi stai veramente dicendo che non hai mai letto Murakami? Ma come è possibile?”
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