venerdì, Aprile 19, 2024

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Mal: “I miei 75 anni a tempo di musica” – INTERVISTA

L’artista ripercorre le tappe fondamentali di una carriera costellata di aneddoti, momenti indimenticabili e intramontabili successi

Cosa c’entra Mal con Liberato e Francesco Gabbani? Probabilmente niente starete pensando, ma arrivate alla fine di questo articolo e poi ne riparliamo. Quella che vi raccontiamo oggi è la storia di un artista che ha saputo rischiare, buttandosi a capofitto nella musica, rinunciando al posto fisso per seguire la sua più grande passione. Settantacinque anni compiuti lo scorso 27 febbraio, Paul Bradley Couling (questo il suo vero nome), ne ha di aneddoti da raccontare e di successi da incorniciare. “Yeeeeeeh”, “Bambolina”, “Betty Blu”, “Tu sei bella come sei”, “Pensiero d’amore”, “Occhi neri occhi neri”, “Sole pioggia e vento”, “Parlami d’amore Mariù”, “Furia” e “Sei la mia donna”, sono soltanto alcune delle canzoni che hanno contribuito alla sua popolarità nel nostro Paese. In occasione del lancio della raccolta “Grazie Piper”, abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista per ripercorrere con lui le tappe fondamentali della sua straordinaria carriera.

Ciao Paul, partiamo dal principio, da quando tutto è iniziato. Se ti dico “c’era una volta” tu come prosegui?

«Beh, c’era una volta la storia di un giovane ragazzo inglese di origini gallesi, che di mestiere faceva l’apprendista elettricista. Durante un matrimonio di un collega ha messo per la prima volta i piedi su un palco, da lì tutto è arrivato in maniera molto naturale. Posso parlare in prima persona che mi riesce più facile?».

Certamente!

«Ok! Così sono entrato a far parte dei Meteors, dopo aver accumulato un po’ di esperienza mi hanno voluto gli Spirits, con loro ho cominciato a girare suonando in diversi locali. Più gli spettacoli aumentavano e più diventava difficile gestire il mio lavoro, tornavo tardi la sera e dormivo poco, fino al giorno in cui stono stato licenziato, così ho cominciato a dedicarmi completamente alla mia carriera di cantante».

Dopodiché sono arrivati i primi ingaggi discografici…

«Sì, ho realizzato cinque album in Inghilterra, senza ottenere un grande successo commerciale, ma abbiamo girato tantissimo, ci siamo esibiti in Germania, Norvegia, Francia, un po’ dappertutto. D’improvviso il gruppo si è sciolto e sono tornato a lavorare come muratore, fino a quando ho ricevuto la chiamata dei Primitives e ho deciso di accettare pur sapendo di dare un dispiacere a mio padre che avrebbe voluto prendessi le redini della sua piccola azienda, ma il tempo mi ha dato ragione».

Così, un bel giorno, venite notati da due manager italiani, chi erano?

«Uno era il grande Alberigo Crocetta e l’altro Gianni Boncompagni, che all’epoca faceva il disc jockey, erano venuti a Londra per cercare nuovi artisti da portare con loro in Italia, ci hanno sentiti suonare dal vivo in un locale di Soho e hanno capito che eravamo proprio quello che stavano cercando. Debuttammo al Piper di Viareggio nell’estate del ’66, per poi passare in autunno al mitico club di Via Tagliamento a Roma. Da lì è iniziata la mia vera e propria carriera in quello che tutti chiamano il “Bel Paese”, per me lo è stato davvero».

Dalle serate del Piper ai primi 45 giri, com’è avvenuto esattamente il passaggio?

«Crocetta intuì la possibilità di ottenere un buon successo discografico, oltre che proprietario del locale possedeva anche un’etichetta che si chiamava Piper Records, la stessa dove ha esordito Patty Pravo. Inizialmente l’idea era quella di tradurre alcune canzoni dall’inglese all’italiano, così è stato contattato il bravissimo Sergio Bardotti ed è nata la mia prima canzone, nel ’66 abbiamo inciso “Yeeeeeh” che conteneva il famoso verso “i tuoi occhi sono fari abbaglianti e io ci sono davanti”, scritto per me da Luigi Tenco».

Hai appena festeggiato il tuo 75esimo compleanno, la domanda di rito in questo genere di occasioni è la seguente: com’è il tuo personale bilancio?

«Positivo al mille per cento, ci sono stati sicuramente alti e bassi, ma analizzando oggi il mio percorso non posso proprio lamentarmi. Ho avuto la fortuna di cantare pezzi di grande successo, come “Yeeeeeeh”, “Bambolina”, “Betty blu”, “Occhi neri occhi neri” e di partecipare quattro volte al Festival di Sanremo, nel ’69 con “Tu sei bella come sei”, nel ’70 con “Sole pioggia e vento”, nel ’71 con “Non dimenticarti di me” e nel 1982 con “Sei la mia donna”. Il bilancio non può che essere affermativo».

Quest’anno ricorrono i cinquant’anni dal lancio di uno dei tuoi pezzi più noti: “Pensiero d’amore”. Qual è il segreto del suo successo?

«Prima di tutto le parole molto semplici, direi indovinate. Originariamente questa canzone era stata incisa dai Bee Gees con il titolo “I‘ve gotta get a message to you”, parlava di un condannato a morte che chiedeva perdono per ciò che aveva commesso. Il senso del testo era completamente diverso dalla traduzione italiana di Franco Migliacci, è suo il merito di aver attribuito ad una melodia così solare e romantica quelle parole senza tempo in cui molti innamorati si sono ritrovati. Complice del successo è stato l’omonimo musicarello, il primo che ho girato e che mi ha fatto diventare famoso anche in tv. Devo ringraziare il doppiatore che mi ha fatto parlare un italiano perfetto, mai avuto un accento così (ride, ndr), mi spiace non essere mai riuscito ad incontrarlo e non sapere nemmeno chi fosse. Hey tu, se ci sei ancora e mi stai leggendo fatti vivo, please!».

Se dovessi chiederti di scegliere tra gli anni ’60 e gli anni ’70?

«Non saprei cosa risponderti, sono molto legato alla musica degli anni ’60, alle canzoni pubblicate in quel decennio, tra cui quelle del mio amato Elvis, ma è negli anni ’70 che ho realizzato alcuni dei miei più grandi successi, come la cover di “Parlami d’amore Mariù”, incisa in occasione della scomparsa di Vittorio De Sica, che a sua volta l’aveva interpretata nel film “Gli uomini, che mascalzoni…”. Realizzai una versione un po’ più moderna di questa canzone che entrò in classifica e vendette qualche milione di copie, incredibile ma vero». 

C’è stato un momento in cui la tua carriera ha preso una direzione che non ti aspettavi?

«Sì, nel 1977 ero stato reclutato nel cast di Sanremo. Pochi mesi prima di partecipare mi hanno proposto di cantare la sigla televisiva “Furia”. Il successo è stato talmente incredibile che il mio discografico mi ha convinto a non partecipare più al Festival, perché rappresentava un rischio e, in quel momento, era meglio seguire una strada più sicura. Col senno di poi ti dico purtroppo, perché la canzone che dovevo presentare era “Bella da morire”, che si è aggiudicata il titolo di quella stessa edizione, nella versione interpretata dagli Homo Sapiens. “Furia” mi ha condizionato la vita, per anni ho partecipato solo a trasmissioni per bambini, incidendo alcuni LP destinati al pubblico più giovane. Da quel momento è stato difficile rientrare e tornare a fare canzoni per adulti, ero stato tagliato fuori… ma non mi sono mai dato per vinto».

Ed è lì che hai avuto un’idea che reputo geniale, hai adottato uno pseudonimo e non hai mostrato il tuo volto. Un lontano parente di Liberato, diciamo. Com’è andata esattamente?

«Tutto è nato dall’incontro con Freddy Naggiar, discografico della Baby Records, lui mi ha proposto di cambiare nome. Ho inciso un disco in inglese nel 1981, sulla copertina abbiamo volutamente messo una silhouette senza volto, utilizzando il mio nome vero Paul Bradley. In Italia molte radio hanno iniziato ad interessarsi al progetto, le stesse che non passavano più Mal perché era considerato un cantante per bambini. In particolare il singolo “Let it be love” è entrato in classifica riscuotendo un buon successo, in questo modo abbiamo fregato questi pseudo intellettuali che pensavano di sapere tutto (ride, ndr). Così sono tornato al Festival l’anno seguente, di nuovo come Mal, con il brano “Sei la mia donna”».

https://www.youtube.com/watch?v=-mAJ6nVzrwQ

A proposito di Sanremo ’82, ho una curiosità personale: ad un certo punto della tua esibizione  compaio sul palco due orsetti di peluche giganti, uno suona la chitarra e l’altro il sax. Sei stato il primo a sdoganare la ritualità dell’Ariston, ben trentacinque anni prima dalla scimmia di Gabbani. Com’è nata questa idea? 

«Addirittura, se lo dici tu! Guarda, l’idea è partita sempre dal genio di Freddy Naggiar, che voleva trovare dei pupazzi dei Beatles per accompagnare la mia performance. E’ andato a Viareggio, nella fabbrica dove realizzano i carri per il carnevale, ma non li ha trovati. Alla fine, anziché quattro scarafaggi, è tornato con due orsi giganti (ride, ndr), che ha reclutato in un magazzino e che erano stati già utilizzati per “Giochi senza frontiere”. Ecco com’è andata la storia».

Tra i tanti incontri importanti della tua carriera, ce n’è uno che ricordi con particolare commozione?

«Ci dovrei pensare, ho incontrato tantissima gente, praticamente tutti, persino i Beatles. In questo periodo sto mettendo insieme i miei ricordi in un libro che non so quando riuscirò a terminare, sono davvero tante le persone che sento di dover ringraziare, dal sarto che mi ha vestito al fotografo che mi ha immortalato, il mitico Pietro Pascuttini. Considero tra gli incontri più importanti della mia vita quelli che ho avuto dietro le quinte con gli autori, i musicisti, i discografici, i produttori e gli addetti ai lavori che hanno contribuito al mio successo. Negli ultimi anni mi viene in mente, ad esempio, Lorella Cuccarini che mi ha invitato a far parte del cast di “Grease”, per ben tre anni abbiamo girato l’Italia insieme, oppure i miei compagni di avventura in Brasile nel reality “La fattoria”. Ogni esperienza, ogni incontro ha contribuito a rendermi quello che sono oggi».

Sempre in tema di anniversari, quest’anno ricorrono i trent’anni dalla tua cittadinanza italiana, che hai ottenuto nel 1989. Quali sono gli aspetti che prediligi e le cose che proprio non ti piacciono di quello che è diventato il tuo Paese?

«Questa domanda è difficile, dopo tanti anni sono diventato italiano anche io e mi sono adattato. Certo, all’inizio non è stato facile per un inglese fare la fila in Italia, col tempo ho imparato a dare gomitate pure io per arrivare prima (ride, ndr). Sono caratteristiche simpatiche, non le ho mai vissute come difetti, piuttosto come tratti caratteriali e distintivi di un popolo che amo e che è famoso nel mondo per la propria arte. Sono arrivato in questo Paese nel ’66 ma ho preso la cittadinanza nell’89, ora ti spiego il perché. All’inizio ho rimandato perché il mio chitarrista si è sposato subito con una ragazza di Roma, il giorno dopo il matrimonio gli è arrivata la cartolina per fare il militare. Così ho aspettato qualche anno per non fare anch’io la figura del fesso (ride, ndr), quando mi sono deciso è entrato in gioco il fattore burocratico, non facevo in tempo a firmare un documento che già era scaduto quello precedente. Insomma, ho impiegato ventitré anni ma alla fine ci sono riuscito!».

Arriviamo al presente e al singolo “Piper”, com’è nata l’idea di voler omaggiare lo storico club che ha rappresentato il tuo personale punto di partenza?

«Mi sono sentito di rendere omaggio alle mie origini e, al tempo stesso, ad uno dei luoghi storici dell’Italia degli anni ’60. E’ stato bello tornare al Piper per girare il videoclip, anche se oggi è molto cambiato. Senza quel locale la mia carriera artistica probabilmente non sarebbe mai cominciata».

“Grazie Piper” è il titolo del tuo nuovo album, contenente dieci tuoi successi rivisitati. Qual è stato il criterio di selezione?

«Non è stato un lavoro difficile, ho scelto semplicemente le canzoni più importanti, quelle di maggior successo, seguendo un filo logico e un ordine cronologico, una traccia ha chiamato l’altra. Certo, potevo inserirne molte di più, ma ho radunato i pezzi più significativi della mia carriera».

Se avessi la possibilità di parlare con quel ragazzino figlio di un muratore che decide di lasciare tutto per mettersi a suonare con la propria band, che consiglio gli daresti?

«Gli direi “vai, vai, tranquillo che questa è la strada giusta” (ride, ndr). Da ragazzo tutto ciò non poteva che essere un lontanissimo sogno, non avrei mai immaginato che sarebbe andata a finire così. Ad un certo punto c’è stato come un bivio, tra la sicurezza di rimanere ad Oxford a fare l’elettricista con mio padre e l’incertezza di prendere la valigia per partire senza sapere nemmeno dove andare. Forse ho avuto coraggio, forse sono solo stato un po’ incosciente, mi sono buttato e oggi non posso proprio lamentarmi. Ecco, quello che direi a quel ragazzo lì è una sola parola: “grazie”».

Abbiamo cominciato con il “C’era una volta”, sappiamo bene come terminano di solito le favole. Qual è il tuo personale “vissero felici e contenti” e il tuo augurio per il futuro?

«Il mio augurio è quello di continuare ad essere felice, come lo sono di questi miei 75 anni. Non mi sento di dover chiedere altro alla vita per me, il futuro è dei miei figli, voglio il meglio per loro che sono belli, anzi bellissimi, rappresentano la mia gioia, anche se a volte discutiamo perché vorrei seguissero le mie orme, ma è giusto che facciano quello che desiderano, proprio come ho fatto io. Il mondo è loro, per quanto mi riguarda desidero rilassarmi un po’, continuare a divertirmi, a fare le mie serate e a giocare a golf».

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Nico Donvito

Appassionato di scrittura, consumatore seriale di musica italiana e spettatore interessato di qualsiasi forma di intrattenimento. Innamorato della vita e della propria città (Milano), ma al tempo stesso viaggiatore incallito e fantasista per vocazione.
Nico Donvito
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