Marco Briano: “Sarabanda? Un sogno che ha preso forma” – INTERVISTA

Marco Briano

A tu per tu con Marco Briano, campione in carica dell’ultima edizione del quiz musicale Sarabanda, condotto da Enrico Papi e andato in onda durante l’estate

Marco Briano ha 26 anni, viene da Savona e fa il revisore contabile, ma per tutti è “Scacco matto”, soprannome coniato da Enrico Papi grazie alla sua passione per gli scacchi e alla straordinaria abilità musicale che lo ha consacrato campione di Sarabanda.

Vincitore del programma, l’unico ad essersi aggiudicato il montepremi nell’edizione appena conclusa, e che dalla prossima stagione riprenderà proprio con lui come campione in carica. Tra orecchio assoluto, aneddoti e sogni che si avverano, ci ha raccontato la sua avventura con il sorriso di chi ha vinto la sua partita più importante.

Marco Briano: “Sarabanda? Un sogno che ha preso forma”, l’intervista

Partiamo dalla tua passione per la musica. Come nasce, quando e perché?

«La mia passione per la musica nasce da piccolissimo, grazie ai miei genitori. In casa giravano CD e cassette dei Nomadi, di Fabrizio De André, di Francesco Guccini e di Francesco De Gregori… insomma, i grandi cantautori italiani. Ma un ruolo fondamentale l’hanno avuto anche i miei nonni paterni, con cui ho trascorso tanti pomeriggi. Loro mi hanno fatto conoscere Gianni Morandi, Massimo Ranieri, Claudio Villa, un po’ di Lucio Battisti. Poi, crescendo, ho anche studiato musica. Ho iniziato col pianoforte, ho fatto solfeggio, studiato scale maggiori e minori, dettati, lettura dello spartito… Tutto questo ha contribuito ad affinare il mio orecchio. Infatti, è stato durante quegli anni che ho scoperto di avere l’orecchio assoluto. Quando avevo 15 anni, mi è capitato di aiutare una compagna di corso con una canzone che non conoscevo dei Bee Gees: l’ho trascritta al primo ascolto con pause, ritmi, tonalità… ed è lì che i miei insegnanti hanno avuto la conferma. Poi, nella vita di tutti i giorni, la musica è sempre presente. Quando cammino, guido, mi sposto per lavoro… ho sempre le cuffiette. È stato un allenamento naturale, costante, inconsapevole. È così che mi sono “preparato” per Sarabanda».

Quali ascolti hanno accompagnato e scandito la tua crescita? Che generi e che artisti ascoltavi e ascolti ancora oggi?

«All’inizio ero la “mosca bianca” del gruppo, mentre i miei amici ascoltavano pop e rap, io cercavo la melodia. All’inizio alcuni generi non mi facevano impazzire, poi mi sono aperto ad altri mondi. Ho ampliato il mio repertorio con artisti stranieri, con il rock, con i Queen, ma il cuore resta nella musica italiana. Oggi ascolto un po’ di tutto, compresi i brani più recenti, anche se non apprezzo quelli con contenuti meno espliciti. Mi piace molto Lazza, per esempio, che non a caso ha basi solide avendo studiato pianoforte al conservatorio, e nei suoi lavori si sente. È uno dei pochi della scena rap che mi convincono davvero».

Come nasce la passione per la musica dei Nomadi e quali sono le tue canzoni preferite?

«I Nomadi sono stati il mio primo grande amore musicale. Il primo concerto che ho seguito fu quello della tournée per i 40 anni, nel 2003, a Rapallo. La mia canzone preferita è in realtà un adattamento di Celtas Cortos, si intitola “20 de abril”, e la loro versione italiana è contenuta in una raccolta di fine anni ’90 intitolata “SOS con rabbia e con amore”, . Il virtuosismo del violino mi gasava. È anche per merito loro se ho iniziato a suonare anche quello strumento. Poi ovviamente c’è “Io vagabondo”, che ho cantato spesso da bambino salendo sul palco, come accade da tradizione durante i loro concerti coinvolgendo i bambini prima del gran finale. E infine “Tutto a posto”, che ho ascoltato a tutto volume sotto la doccia la sera prima di diventare maggiorenne».

Come ascoltatore, oggi, ti consideri legato a un solo genere o ti definisci “onnivoro”?

«Mi definisco assolutamente onnivoro. Ascolto musica in base all’umore o al contesto. Mi piace anche esplorare le playlist più contemporanee, ma tendo a cercare sempre qualcosa che abbia una certa profondità, nei testi o negli arrangiamenti».

Hai solo 26 anni e una conoscenza musicale impressionante. Ti riconosci nella musica attuale?

«In alcuni artisti sì, in altri meno. Mi piace chi riesce a unire il presente con una preparazione solida. Chi studia, chi sperimenta, chi ha rispetto per la musica. Non apprezzo molto i testi vuoti o troppo espliciti, ma so riconoscere la qualità anche nei generi che non ascolto abitualmente».

Durante Sarabanda hai dimostrato grande preparazione anche sul Festival di Sanremo. Da dove nasce questa passione?

«Anche in questo caso c’entrano i miei nonni e mia mamma. Sanremo in famiglia è sempre stato un appuntamento fisso, anche da piccolo. Poi col tempo ho approfondito, ci sono edizioni che ho riscoperto da solo, anche quelle di anni in cui non ero ancora nato. “Salirò” di Daniele Silvestri, per esempio, mi ha colpito per la performance ma anche per il significato. E poi “Io che non vivo” di Pino Donaggio, che ho scoperto nel 2015 quando fu ospite per i 50 anni della canzone e per ritirare il Premio alla Carriera. Il Festival è parte della nostra cultura musicale, e riascoltarne la storia è un modo per capire meglio il presente».

E la partecipazione a Sarabanda com’è arrivata?

«Ho visto l’annuncio su Facebook il 4 luglio e ho deciso di provarci. Ho preparato tutto con cura, ma con un solo obiettivo: non avere rimpianti. Se non mi avessero preso, pazienza, ma almeno ci avevo provato. Dopo 24 giorni mi hanno chiamato. Ho fatto il provino e poi è partito tutto. Registrazioni, chiamate, prove. Un sogno che ha preso forma».

Era la tua prima esperienza televisiva?

«A livello nazionale sì. In passato avevo partecipato nel 2014 a Castrocaro, nella categoria voci bianche, trasmesso da un’emittente regionale. Ma Sarabanda è stato il mio primo quiz televisivo».

Prima della vittoria sei andato vicinissimo al 7×30 in almeno due occasioni. Come hai fatto a mantenere la calma?

«In realtà ero tesissimo. La pressione aumentava di volta in volta, ma allo stesso tempo sentivo che ce la potevo fare. C’erano stati errori, anche banali, ma ho cercato di trasformare la tensione in concentrazione. Simone, uno dei miei avversari più forti, mi ha dato una grande lezione di sportività. Mi ha sostenuto anche durante la gara. È stato il momento in cui ho capito che ce la potevo fare davvero».

A chi senti di dedicare questa vittoria?

«In primis a me stesso. È un riscatto personale, un sogno che avevo da sempre. Poi ai miei genitori, che mi hanno sempre detto: “Se un giorno faranno tornare Sarabanda, tu ci devi essere”. Lo dedico anche a chi mi ha sempre sostenuto. Era il mio programma preferito. Un sogno realizzato.

Tu sei appassionato anche di scacchi. Cosa hanno in comune musica e scacchi?

«Sono due mondi più vicini di quanto sembri. Entrambi si basano su combinazioni, su mosse di apertura, su strategie. Nella musica, come negli scacchi, ci sono pattern, armonie, sviluppi, sorprese. A volte ci vedo anche un legame più poetico, quasi letterario. Penso ad alcune opere di Calvino e Montale, ma anche nella musica a Ruggeri e De Gregori. Gli scacchi sono una metafora perfetta della vita in generale».

Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?

«La musica mi ha insegnato a credere nei sogni, a non smettere mai di coltivarli. È un richiamo continuo alla memoria, alle emozioni, alle ferite. Alcune canzoni sono dei veri e propri tabù emotivi, come “My Way”, che mi ha fatto commuovere durante una puntata. Ti riportano a momenti precisi della vita. La musica ti fa piangere, sorridere, ricordare. In una parola sola, ti salva».

Scritto da Nico Donvito
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