L’artista partenopea ci racconta il disco “Avesseme furtuna”, contaminato da sonorità provenienti dal sud del mondo
Ciao Marilù, è davvero un piacere poter fare questa lunga e interessante chiacchierata con te, per conosce un mondo che, sinceramente, non ho mai avuto la possibilità di approfondire. Partiamo proprio dal tuo album “Avesseme furtuna”, che rappresenta il tuo battesimo discografico. Com’è nato e cosa rappresenta per te?
«Ciao Nico, innanzitutto benvenuto nel nostro mondo sonoro e grazie per l’attenzione che vi stai ponendo. “Avesseme furtuna” nasce da una personale urgenza, maturata nel tempo e catalizzata dall’incontro artistico con Antonio Di Francia (già Solis String Quartet), realizzata grazie anche al contributo musicale e tecnico di grandi professionisti, tra cui l’attenta etichetta SoundFly nella persona di Bruno Savino che ha saputo cogliere il potenziale di questo progetto e mi ha dato fiducia. Attraverso un invisibile filo conduttore, sono stati cuciti insieme undici brani, tra inediti e rielaborazioni, per restituire all’ascoltatore un viaggio sonoro che narra di storie che sono appartenute o appartengono a noi tutti».
Un viaggio nelle radici e nella nostra tradizione, quanto hanno contato la ricerca delle sonorità e la cura delle parole in questo progetto?
«Quasi tutto, direi. Questo progetto rappresenta anche il risultato dei miei viaggi al sud, nati inizialmente per una ricerca coreutica, ma chi conosce le nostre tradizioni, sa bene che esiste una sinergia indissolubile tra danze, ritmi e canti, peculiari ed unici; pertanto, in modo del tutto naturale il mio interesse si è propagato verso lo studio dei tamburi a cornice e del canto popolare. Gli occhi, le orecchie, ma soprattutto il cuore, si sono riempiti così tanto di sud, che in modo del tutto spontaneo, l’ho traghettato, filtrandolo attraverso la mia anima, all’interno di questo progetto. Ad un ascolto attento, si percepisce che le melodie sono abbastanza semplici, com’è giusto che sia per un mondo che si fonda da millenni su questa grande qualità, ma le armonie e le sonorità rendono questo lavoro moderno e ricercato. I testi, nati tutti in un secondo momento, trattano di svariati temi: le sfumature dell’anima, le denunce, i diritti umani, l’amore in tutte le sue forme. Ogni parola ha un peso specifico non indifferente perché è stata rimuginata per lungo tempo…sapientemente scelta e intrecciata sulla musica; solo lei poteva essere lì, per quel tema, per quella nota. A tal proposito, colgo l’occasione per ringraziare anche Luigi Aulitto e Pasquale Ziccardi per aver contribuito al nostro lavoro scrivendo alcuni testi».
Un disco che tende ad abbattere le barriere e i preconcetti, sdoganando in qualche modo il dialetto, a dimostrazione si può anche andare al di là della lingua?
«Grazie per avermi posto questa domanda, mi dai la possibilità di esprimere ciò che penso a tal riguardo. Innanzitutto mi preme precisare che la diffusione del napoletano all’estero, in molti casi, è maggiore rispetto alla stessa lingua italiana, e questo grazie alla bellezza dei classici napoletani, al teatro di Eduardo e all’emigrazione. Ciò detto, vorrei ora porre un quesito ai lettori: fatte poche debite eccezioni, chi tra voi comprende in modo estemporaneo i testi dei brani stranieri quando li ascolta? La prima cosa che ci affascina è “il suono” delle parole e non “il senso”. In un secondo momento, qualcuno sicuramente ricerca e traduce i testi per comprendere ciò che l’artista voleva comunicare, e diciamoci la verità: quanti di voi, dopo averlo fatto, son rimasti delusi dal “senso” di una canzone che adorava invece per il suo “suono”? Pertanto mi appello al buon senso di un pubblico non discriminante, per rivendicare il diritto ad esistere, nel mercato musicale attuale, anche della lingua napoletana, il cui glorioso passato deve conferire oggi un valore aggiunto a questo suono, che è di una bellezza struggente e desidera sopravvivere nel tempo! Se il problema è davvero solo la comprensione del testo, allora probabilmente i tempi sono maturi per la creazione di una app-translate anche di tale lingua».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come è nata la tua passione per questo tipo di arte?
«Ne sono innamorata sin da piccolissima. Ognuno nasce con un’attitudine ben precisa e credo che i genitori abbiano il dovere di aiutare i propri figli a sbocciare nel loro talento naturale, senza forzarli. Personalmente, ho dovuto sudarmelo, fino all’età adulta! I miei genitori, entrambi insegnanti vecchio stampo, mi spingevano solo verso lo studio scolastico, abortendo ogni mia velleità artistica, fosse essa per la danza o la musica. Oggi so’ che lo hanno fatto per troppo amore, volevano che io facessi un lavoro “normale” che mi desse una stabilità economica, quella che spesso l’arte non ti dà. Ci ho anche provato ad ascoltarli, ma mi sentivo oppressa. Il mio modo di stare al mondo era un altro. Quindi ho fatto di testa mia: un personalissimo percorso da autodidatta fino a quando, più grandicella, grazie ai primi ingaggi come ballerina di danze popolari, ho potuto pagarmi le lezioni di canto. Cantare per me è un’urgenza vitale! Quando nasci non ti chiedi perché respiri, lo fai e basta, per natura, per istinto. Per sopravvivere a questo mondo, il mio respiro è il canto».
Quali sono i generi e gli artisti che hanno ispirato e accompagnato la tua crescita?
«Sei sicuro di voler scoprire quanto caos mi porto dentro?! Mi son sempre reputata un’ascoltatrice “libera” di seguire “il bello” che ogni genere può offrire, senza discriminarne quasi nessuno di essi; adoro la diversità perché è uno stimolo alla crescita. I miei ascolti hanno subìto una metamorfosi nel corso degli anni, come un corpo che cambia: la mia adolescenza viaggiava a suon di rock, metal, indie… Nirvana, Bijork, The Doors, Tori Amos, Queen, Skunk Anansie, Radiohead, i primi Metallica, Blind Guardian, Pearl Jam, Red Hot Chilli Peppers, giusto per citarne alcuni. Ma col tempo i gusti son mutati (o maturati? chissà!) e la mia musicofagia si è indirizzata verso sonorità nuove ed ecco che comincia ad affacciarsi il pop e l’etnica, prima straniera e poi nazionale: Enya, Dead Can Dance, Blackmoor’s Night, Coldplay, Altan, The Chieftains, Zap mama, il fado tutto, il primo Pino Daniele, NCCP, R. De Simone, Elisa, Eugenio Bennato, Modugno, Peppe Servillo, Enzo Gragnaniello, le Paranze tradizionali del mio territorio. Ma se oggi dovessi fare un sunto delle voci che mi hanno ispirata e continuano a farlo, sicuramente non potrei dimenticare di menzionare (in ordine sparso) Concetta Barra, Rosa Balistreri, Mia Martini, Noa, Mercedes Sosa, Amalia Rodriguez, Sainkho e Dulce Pontes».
L’incontro che ti ha segnato e che ha determinato il tuo percorso, la persona che non smetteresti mai di ringraziare?
«Nella vita incontriamo diversi angeli che ci illuminano la mente ed il cammino, soprattutto nei momenti difficili, quelli in cui effettivamente cresciamo. Me ne vengono in mente alcuni, ma sicuramente l’incontro che in assoluto mi ha cambiato la vita, umanamente ed artisticamente, è stato quello con Antonio Di Francia a cui va tutto il mio amore e la mia gratitudine. La stima e la fiducia che ha riposto in me, hanno permesso alla mia anima di sbocciare liberamente. Lavorare al fianco di un professionista del suo calibro, ha rappresentato una formazione ineguagliabile, come essere umano ed artista».
Tornando al disco, non posso non chiederti dell’incontro artistico con il Maestro Enzo Gragnaniello…
«Beh, mani sudate e gola secca…stavo per incontrare uno degli artisti napoletani che più amo. Né io, né Antonio Di Francia avevamo ancora avuto il piacere di collaborare con lui. Quando abbiamo scritto il brano “Avesseme furtuna”, subito abbiamo pensato che meritava di essere espresso in modo universale, attraverso anche una voce maschile che rappresentasse l’identità sonora non solo della nostra terra ma del meridione del mondo. Il mio pensiero viaggiava sempre verso Enzo, ma mai avrei osato chiedere. Il suo timbro così unico incontrava anche il gusto di Antonio che, più determinato di me, è partito con la richiesta di incontrarlo. Quando gli abbiamo fatto ascoltare il progetto ed il brano nello specifico, non ha esitato ad accettare. Che gioia! Le registrazioni con Enzo rimarranno impresse nel mio cuore, e sinceramente non so descrivervi l’emozione che ho provato nell’ascoltare quella voce, per me magica, mentre si intrecciava con la mia. Grazie ancora di cuore, Enzo».
Da un certo punto di vista, questa è una musica che rende al meglio dal vivo, cosa rappresenta per te la dimensione live?
«Sono una che si è formata soprattutto grazie ai live; la mia gavetta si è consumata sui palchi e tanto ancora ho da imparare, pertanto questa dimensione per me è di vitale importanza e rappresenta la mia vera linfa. Tra l’altro, il genere dal quale sono partita, ovvero le tradizioni popolari, hanno ragion d’essere proprio perché si fondano sul senso di condivisione comunitaria nel “qui ed ora” dell’atto comunicativo, magicamente rappresentato dal cerchio che costituisce un contenitore nel quale tutti possono essere protagonisti e spettatori allo stesso tempo. Ricordo ancora le primissime registrazioni in studio, un po’ traumatiche, perché soffrivo la mancanza del pubblico che ti restituisce l’energia che gli doni, percepivo la sala d’incisione come un luogo asettico, le cuffie che mi privavano dei naturali armonici del canto acustico a cui ero abituata. Per fortuna abbiamo fatto pace col tempo e porto sempre con me, dentro quella stanzetta insonorizzata, l’energia e l’amore del pubblico che mi segue».
A tal proposito, nella prefazione di Peppe Servillo si legge “la musica popolare si nutre della vita e non è facile rendere l’idea di movimento che la vita contiene, la scrittura dei brani di questo lavoro è destinata al palcoscenico e l’incisione in studio deve godere di questo passaggio per formalizzare una volta per tutte il movimento che dalla vita proviene”. Una sintesi perfetta?
«Assolutamente sì! Peppe mi ha fatto un grande dono con la sua prefazione, ma prima ancora con la sua preziosa amicizia. Ricordo ancora quando da piccola, innamoratissima di lui e degli Avion Travel, nel lontano 1998 da Sanremo, mi incantava con “Dormi e sogna”…ed io veramente sognavo ad occhi aperti di poter un giorno riuscire a cantare in modo così intenso e comunicativo come solo lui sa fare. Ed oggi, ogni volta che leggo le sue parole ricevo una carezza al cuore; vi invito a leggerla tutta».
Peppe Servillo ed Enzo Avitabile sono stati tra i protagonisti dell’ultima edizione del Festival di Sanremo, cosa pensi della loro canzone e quanto reputi importante far ascoltare queste sonorità su un palco così importante?
«Sicuramente uno dei pochissimi brani veramente originali, per sonorità e melodia, tra quelli presentati quest’anno a Sanremo. Avitabile è unico e Servillo si conferma sempre uno straordinario crooner; ad entrambi si potrebbe dare anche la lista della spesa ed una sola nota, ne tirerebbero fuori un capolavoro. Quando Napoli arriva su grandi palchi, ne sono sempre felice. Sanremo è una vetrina straordinaria e in questo caso Avitabile e Servillo hanno portato le sonorità del sud del mondo, la voce di Scampia e la realtà di un luogo che vuole cambiare. Per quanto detto precedentemente in merito alla lingua, però, mi sarebbe piaciuto ascoltare un po’ più di napoletano, così come tra l’altro è nello stile di Avitabile, ma ben comprendo la scelta comunicativa su quel palco».
Nella nostra lunga ed interessante chiacchierata, mi ha affascinato la tua passione per uno strumento a percussione che, oltre ad essere tra i più antichi, è radicato nella maggior parte delle etnie del mondo. Come descriveresti la Tamorra, o Tamburo a cornice, per i nostri lettori?
«Come appunto ti dicevo, il tamburo a cornice non è solo uno degli strumenti più antichi al mondo, ma sicuramente quello più diffuso; ogni etnia ne possiede uno, unico per forma, dimensione e suono. Il Tamburo a cornice è donna ed è la storia a dirlo; giusto per citare uno dei tanti esempi, esso era l’oggetto intermediario che le Menadi utilizzavano durante i riti propiziatori e le cerimonie religiose. Ma questo e tanto altro l’ho scoperto solo dopo aver imparato a suonarlo, inizialmente è stato amore folgorante, istinto e passione. La Tammorra, tamburo a cornice della mia terra, è lo strumento principe delle nostre tradizioni e scandisce la vita col suo ritmo accompagnando la comunità che lo utilizza nei riti religiosi, ricorrenze familiari, ritualità stagionali e ludiche. Esso assume molteplici valenze nella mia vita: è un ventre materno, ma anche uno strumento di dissenso, un legame col divino, un prolungamento di me stessa, è la forza».
Spesso si tende a confondere la musica popolare con quella neomelodica, in realtà due universi paralleli. Io la mia idea a riguardo ce l’ho, ma da musicista mi spieghi tecnicamente le differenze?
«Innanzitutto penso che la musica tutta sia nata libera e che la classificazione in generi rappresenti una necessità della discografia e dei critici musicali piuttosto che un bisogno di chi la vive nel quotidiano. Oggi, si definisce “popolare” quella musica che scaturisce dalla cultura di un dato popolo (pertanto unica e peculiare per luogo ed etnìa) che ignora i codici di esecuzione della nobile e colta musica classica; pertanto la forma compositiva spesso è varia, non necessariamente ritroviamo strofe e ritornello, mentre le ritmiche e le sonorità sono più tribali ed è eseguita con strumenti tipici della tradizione di quel popolo la cui esistenza a volte è millenaria. Invece la “neomelodica” ripropone i codici della musica “pop”, come forma canzone con strofa e ritornello, utilizzando strumenti e sonorità moderne, ma in lingua napoletana. Per quanto concerne i contenuti il tutto è molto vario, anche se prevalentemente la “popolare” svolge una funzione sociale comunitaria a 360° mentre la “neomelodica” mette quasi sempre al primo posto la soggettività».
Quali sono i tuoi prossimi progetti in cantiere e/o sogni nel cassetto?
«E vabbé, ma i sogni nel cassetto non te li posso dire, sono napoletana doc, pertanto abbastanza superstiziosa; non proprio cronica, ma più della serie “non è vero ma ci credo!”. Per quanto concerne i progetti, nell’immediato siamo concentrati sugli showcase e concerti legati ad “Avesseme furtuna”; ma non ti nascondo che appena abbiamo un briciolo di tempo, lo stiamo già spendendo per lavorare a brani nuovi. Se la curiosità vi attanaglia e volete saperne di più, vi invito allora a seguirci sulla pagina fb e sul sito».
Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, per concludere, quale messaggio vorreste trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la vostra musica?
«La capacità empatica, il sum-pathos, la sensibilità che avrebbe dovuto distinguere il genere umano dal resto del mondo animale, si sta dissipando inesorabilmente. “Avesseme furtuna” è un mantra di speranza contro il mare dell’indifferenza, dell’anedonìa, e traghetta in sé storie di vita, forti testimonianze che ci auguriamo facciano riflettere e contribuiscano a scuotere dal torpore. L’amore sincero, quello passionale e tormentato, la violenza ed il dolore, la malaciorta, la follia e la speranza; ecco gli stati d’animo ed i sentimenti su cui si fonda questo album».
Nico Donvito
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