Massimo Di Cataldo: “Continuo a mettermi alla prova” – INTERVISTA
A tu per tu con Massimo Di Cataldo in occasione dell’uscita del suo nuovo singolo “Uno come me”, disponibile dallo scorso 5 dicembre. La nostra intervista al cantautore romano
Si intitola “Uno come me” il nuovo capitolo della storia artistica di Massimo Di Cataldo, un ritorno in musica che profuma di ricerca, domande e nuove consapevolezze. Il singolo, pubblicato per Dicamusica / Believe, è una canzone intensa, sospesa tra sentimento e razionalità, in cui il cantautore si mette a nudo senza mai scadere nell’autocompiacimento. Dentro ci sono gli echi della beat generation, le letture che lo hanno segnato da ragazzo, e un sound che guarda a certo folk rock di matrice irlandese, dagli U2 in poi, già presente nel suo immaginario fin dagli anni Ottanta e diventato, negli anni, una delle cifre distintive delle sue sonorità acustiche.
Parallelamente, il 6 gennaio prenderà il via il “Se adesso te ne vai 1996–2026 Celebration Tour”, un viaggio nei teatri pensato per celebrare i trent’anni di “Se adesso te ne vai”, brano-simbolo della sua carriera e classico intramontabile della musica italiana. A completare il quadro di questo anniversario speciale, la redistribuzione in digitale e una nuova ristampa in vinile di “Anime”, l’album del 1996 che conteneva la hit sanremese. Di tutto questo, del nuovo singolo, del tour celebrativo, del rapporto con il passato e con il Massimo di ieri e di oggi, abbiamo parlato direttamente con Massimo Di Cataldo, che ci ha accompagnato in un viaggio tra memoria, presente e futuro.
Massimo Di Cataldo presenta il singolo “Uno come me”, l’intervista
Partiamo da “Uno come me”, il tuo nuovo singolo uscito lo scorso 5 dicembre. Come si è svolto il processo creativo di questo pezzo e quali riflessioni lo hanno ispirato?
«È un brano di ricerca. Nasce in un momento in cui sentivo di dover fare una sorta di sosta di identità: come se, a un certo punto della mia vita, mi mancasse qualcosa per completare il quadro di tutto quello che avevo fatto fino ad ora, musicalmente e umanamente. Probabilmente avevo bisogno di un confronto maggiore con gli altri, di una vera reciprocità. Io faccio spesso fatica a parlare esclusivamente di me stesso, a raccontarmi in maniera diretta, a volte ho quasi la sensazione di annoiarmi da solo (sorride, ndr). Allora mi è venuta voglia di cercarmi anche negli altri: di trovare quei tratti comuni che ci uniscono come esseri umani e che troppo spesso dimentichiamo.
“Uno come me” è proprio questo: una ricerca di reciprocità, di condivisione, un modo per guardarmi allo specchio attraverso gli occhi di chi ascolta».
Nel testo del brano ti definisci “un sopravvissuto”. Da cosa e per quali ragioni ti senti così?
«“Sopravvissuto” è una parola forte, lo so, ma credo che in tanti potremmo definirci così. Siamo tutti, in qualche modo, sopravvissuti a questa vita stessa: per certi versi vivere è facile, ma allo stesso tempo è estremamente complicato. Sopravvivere significa aver attraversato difficoltà, momenti di smarrimento. A me è capitato più volte di pensare di lasciare questo lavoro, perché, per quanto sia mosso dalla passione, è un mestiere che ti mette continuamente alla prova, ti chiede molto, emotivamente e non solo. Nell’ultimo ritornello canto: “sopravvissuto uno come me, sopravvissuto a tutti i suoi perché”. E lì ci siamo un po’ tutti: chi è che non si fa domande che non hanno risposta? Le situazioni a cui non sei riuscito a dare un senso sono forse le più difficili da affrontare. Riuscire a convivere con quei dubbi, con quella parte irrisolta di te stesso, senza esserne travolto, alla fine diventa un punto di forza».
A livello musicale, che tipo di lavoro c’è stato in studio dietro la ricerca del sound di “Uno come me”?
«Ho ripescato un suono che ho sempre amato e che facevo da ragazzo con la chitarra: un certo rock venato di folk, anni ’70 e ’80. Mi sono divertito a tornare a quelle atmosfere, a quei primi esperimenti.
Un riferimento preciso, per me, è “I Still Haven’t Found What I’m Looking For” degli U2: non a caso è un brano che parla di una ricerca, di qualcosa che ancora non abbiamo trovato e forse nemmeno sappiamo definire. In “Uno come me” c’è quella stessa tensione, quello stesso movimento interiore.
Il punto di partenza è sempre la chitarra acustica, il mio modo più naturale di approcciarmi alla musica: partire da lì e costruire attorno un vestito che avesse quella vibrazione folk-rock».
Il 6 gennaio partirà il “Se adesso te ne vai 1996–2026 Celebration Tour”: cosa ti aspetti da questo viaggio e cosa dovrebbe aspettarsi il pubblico da te?
«Per me sarà prima di tutto un grande racconto di questi trent’anni. Non sarà solo una scaletta di canzoni, ma uno spettacolo in cui tra un brano e l’altro ci saranno aneddoti, storie, momenti condivisi.
Non mi interessa fare lo “spiegone” delle canzoni, ma mi piace raccontare il contesto: cosa stava succedendo nella mia vita quando ho scritto una certa canzone, che aria si respirava, quali rapporti d’amore o d’amicizia c’erano dietro. Ci sarà anche spazio per ironizzare sul mondo della discografia e dello spettacolo, dove ne ho viste tante. Alcune situazioni, oggi, a distanza di anni, fanno sorridere; all’epoca, invece, erano piuttosto impegnative e a volte frustranti, perché bisognava accettare regole non sempre semplici da digerire. Mi aspetto un viaggio di energia condivisa. E spero che il pubblico si aspetti, da me, sincerità: canzoni, difetti, emozioni, tutto quello che realmente sono».
In un’altra intervista mi avevi raccontato che “Se adesso te ne vai” all’inizio non era stata capita, soprattutto dai tuoi discografici. A crederci, oltre te, c’era stato in particolare Pippo Baudo: ti va di condividere un ricordo di lui?
«Sì, il testo di “Se adesso te ne vai” non era piaciuto molto ad alcune persone che lavoravano con me in quel periodo. Non li aveva toccati, diciamo così. Parlo al plurale proprio per non indicare nessuno in particolare, ma la sensazione era quella. Io invece ci credevo tantissimo. Secondo me aveva una chiave di lettura particolare, quasi più femminile che maschile, con questo eufemismo del “non me ne frega niente” che non era facilissimo da cogliere al primo ascolto. Baudo, invece, l’ha colta subito. Mi ricordo benissimo la scena: eravamo nel suo ufficio, ascolta la canzone, a un certo punto batte la mano sul tavolo e dice: “Bello il testo. Questa è la canzone”. In quel momento mi ha dato una fiducia enorme. Parlarne oggi mi emoziona, perché ci ha lasciato da poco. Io a Pippo devo moltissimo, davvero. È stato fondamentale per la mia carriera e per il destino stesso di quel brano».
In occasione del trentennale, l’album “Anime” verrà ridistribuito in digitale e in una nuova ristampa in vinile. Se dovessi scegliere un brano di quel disco diverso da “Se adesso te ne vai”, che senti ancora particolarmente importante per te, quale citeresti e perché?
«Il primo che mi viene in mente è “Un giorno vedrai”. È una canzone che parla, in qualche modo, della vita oltre la vita, delle difficoltà che attraversiamo e di una visione in cui ci si può ritrovare e sorridere di quello che abbiamo passato. Mi piace pensare che quel “giorno in più” possa esistere davvero, non necessariamente in chissà quale aldilà indefinito, ma come sogno, come utopia che ci accompagna. È un brano che mi emoziona moltissimo, al punto che faccio fatica a cantarlo dal vivo: mi si blocca la mascella, mi trema la voce. Ci sono canzoni che non riesco a fare spesso in concerto proprio per questo motivo. A quell’album però aggiungerei anche “Michela”. Non è mai stata un singolo, non ha avuto un video, eppure è entrata nell’immaginario collettivo. È stata inserita nella colonna sonora del film “La classe non è acqua” e, da allora, il pubblico l’ha scelta come sua. Non c’è concerto in cui, a un certo punto, qualcuno non urli “Michela!” dalla platea. Ormai è uno di quei brani che non possono mancare e non mancheranno nemmeno nei prossimi concerti».
Per concludere, se un ragazzo o una ragazza che ti ascolta da poco scoprisse “Uno come me” e poi andasse a recuperare “Se adesso te ne vai”, qual è il filo rosso che vorresti riconoscesse tra il Massimo di ieri e quello di oggi?
«Credo che il filo rosso sia il mettersi alla prova, il confrontarsi con la vita e con gli eventi senza assumere mai uno sguardo vittimistico. In “Se adesso te ne vai”, come in “Uno come me”, c’è la visione di un uomo, non solo quella di Massimo Di Cataldo, ma proprio dell’essere umano, che affronta le proprie sfide, le proprie cadute, le proprie domande, e prova comunque ad andare avanti.
Così, vada come vada. Questo, se devo scegliere, è il punto in comune che mi rappresenta ancora oggi».