Il racconto di un amore sotto tanti punti di vista diversi
Una canzone senza moralismi e senza intenti educativi; riflessiva, per il fatto di rispondere al bisogno di stare dentro di noi, anche se dovesse capitare di canticchiarla sotto la doccia. Tutto questo è “Che c’è di male”, l’ultimo singolo di Max Gazzè. Indiscusso maestro del ragionar cantando, Max conosce l’importanza di avere la libertà nella testa senza la pretesa di possedere verità assolute sull’amore e sulle emozioni che lo innescano.
Tanto vale la pena farsi due domande e cercare di capire quale sia la forma più giusta di quel sentimento così misterioso. L’interrogativa indiretta “Mi chiedo”, in apertura, porta subito al nocciolo della questione (“se il modo più bello per amare sia quello che già era previsto dalla legge universale nessun contrasto mai tra l’uno e l’altro amore caro concetto”) e propone una soluzione plausibile già dalla prima strofa: può non essere unico l’amore di una vita, ma declinarsi al plurale e fuori da ogni presunzione di “normalità” (“chi ama lo fa non per morale ma per libertà ed include tutti questi sentimenti veri ma vuole averne tanti insieme senza freni condivide l’anima, con chi l’anima gli dà”).
Potremmo pensare a quanto sia retorico questo concetto, soprattutto se ci riteniamo aperti e fluidi nelle relazioni, ma Gazzè comprende, invece, la necessità di rifondare un’idea concreta dell’amore contemporaneo, secondo un incastro multiplo che, nonostante tutto, fatica a decollare e a costituirsi come modello di sicurezza per le nuove generazioni. Per ben tre volte, ritorna come un mantra nel ritornello “che c’è di male”, a rinforzare lo stesso concetto: non c’è colpa se proviamo amore per più persone (“se mi innamoro con frequenza innaturale e non è vero che ora devo dare un taglio a questo amore se ti voglio ancora bene come dal primo vocale e a quanto pare è solo un fatto di retaggio culturale se metto un limite al mio cuore mi domando cosa fare per lasciartelo capire in un secondo che non c’è niente di male”).
Nella seconda strofa analizza quanto influiscano sull’idea archetipica dell’amore sia le consuetudini sociali sia i costrutti secolari delle religioni, che ci vengono trasmessi fin dalla nascita, in parte involontariamente, con la presunzione di essere “naturali”, ideali e classificano tutto il resto come devianza.
Dunque, l’amore sarebbe un’alternativa tra rettitudine ed errore? Tra esclusività e possesso? Libertà e dipendenza? Tra verità e segreto? Si può svilire così l’amore? Non sarebbe meglio concepirlo come un incontro d’anime? (“Mi chiedo se il senso esclusivo del possesso sia un mero cliché non applicabile al mistero dell’amore l’amore privo di ogni logica e ragione ti sembra giusta l’idea che la tua anima gemella sia quella e chissà dove l’ha nascosta il cosmico creatore si può svilire a un gioco simile l’amore condividi l’anima, con chi l’anima ti dà”).
Quando il dado sembra tratto e la canzone volge a termine, Max ci spiazza letteralmente con un ribaltamento concettuale che ricolloca la rappresentazione amorosa su un piano idealizzato; qui, non c’è spazio per il dubbio e il cuore di ogni anima sognante può trovare conforto e conferma a quel che pensa dell’amore: un sentimento da vivere esclusivamente al singolare, diversamente può essere che non si abbia amato mai (“E poi sarò pure un idealista, ma mi fa perdere la testa l’ipotesi di un’altra libertà puoi negare, dissentire, criticare, detestare ma forse il fatto è che non hai amato mai”). Nell’incerto, una sola certezza: non c’è mai niente di male, quando la musica, come l’amore, diventa incontro singolare e plurimo, contribuendo a rinforzare il senso del possibile nel nostro viaggio. Anche per questo, “Grazie Max!”
Francesco Penta
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