“La geografia del buio”: un album che nasce dalla solitudine, dal dolore e dall’amore ritrovato verso se stessi
Un percorso individuale nel proprio buio interiore, queste le coordinate che Michele Bravi ha deciso di svelare attraverso le dieci tracce contenute all’interno de “La geografia del buio”, il suo terzo album in studio, disponibile per Universal Music a partire dallo scorso 29 gennaio. A circa quattro anni di distanza dal precedente lavoro “Anime di carta”, l’artista umbro torna a raccontarsi attraverso la musica, con la consapevolezza e il trasporto di chi il dolore lo ha conosciuto, frequentato, affrontato e compreso fino in fondo.
Ciao Michele, benvenuto. Partiamo da “La geografia del buio”: quanto hai dovuto scavare, a mani nude e in profondità, per portare alla luce queste dieci canzoni?
«In realtà tanto, questo disco è il risultato di un lavoro di ricerca personale. Ad un certo punto ho dovuto affrontare la terapia, a seguito di un grande strappo che la mia vita ha ricevuto. Un lungo percorso dettato da una necessità individuale, che solo in una seconda fase si è trasformato in un progetto artistico».
La musica, secondo te, è ancora in grado di veicolare questo tipo di tematiche introspettive? O per meglio dire, in una società che viaggia alla velocità della luce, la gente ha ancora la “pazienza” di mettersi lì ad ascoltare il significato profondo di un lavoro come questo?
«Guarda, secondo me sì. Ci sono due cose che non cambiano mai all’interno della società: la felicità e il dolore. Nonostante tutti i cambiamenti che possiamo subire a livello antropologico, queste due sensazioni rimangono intatte nel tempo. Il fatto che questo disco abbia collezionato una risposta così tanto affettuosa, dalle classifiche in poi, mi fa affermare con delle prove concrete che le persone hanno ancora voglia di sentire parlare d’amore e di ferite. Il dolore può presentarsi in mille modi e in mille storie diverse, perchè parla sempre la stessa lingua. Non esiste una classifica, cambiano le contingenze, ma non si possono mettere realmente in paragone vari tipi di sofferenza. Condividere il dolore aiuta a sentirci connessi».
Hai tenuto a precisare che non è stata la musica a salvarti, bensì la terapia, perchè il dolore non si cura da solo. Un messaggio importante, soprattutto in un momento in cui si parla tanto di igiene personale, ma non ci si rende bene conto dell’aspetto psicologico che c’è dietro questa pandemia…
«Questa è una cosa su cui insisto tantissimo, perchè sento spesso dire frasi tipo “adesso trasformerai il dolore in musica”. Ecco, questa è un’informazione pericolosissima, perchè rappresenta una sorta di invito a nascondere il dolore e rifugiarsi dentro una passione. In realtà questa cosa ti porterà soltanto a lasciare ulteriore spazio al dolore, perchè da quel momento in poi sarà lui a decidere e vivere al posto tuo. E’ un po’ come consigliare a qualcuno di curare il proprio braccio rotto bevendo delle tisane. Il dolore è una malattia e va trattato come tale, attraverso un percorso clinico. La musica ti aiuta a decifrare quello stesso dolore, non a guarirlo».
Questo disco doveva uscire un anno fa, quindi è stato scritto prima dell’era Covid. Quali sono, secondo te, i punti di interconnessione con quello che stiamo vivendo oggi, gli elementi che contestualizzano questo album?
«Sai, il dolore abbatte ogni tipo di cronologia temporale, perchè viaggia sia nel passato che nel futuro. Come hai sottolineato, questo disco è stato scritto prima della pandemia, ma in realtà nascondeva già dei segreti che questo momento storico ci ha costretto a guardare in faccia. Quello che stiamo vivendo adesso è un buio collettivo, il nostro mondo sta affrontando un grande trauma. Stiamo provando a costruire una qualche normalità, una nuova possibilità di quotidianità, seppur con premesse diverse. Bisogna imparare a convivere con l’incertezza, cercare una geografia nel proprio buio significa provare a muoverci senza stabilità, senza luce. Negare il dolore sarebbe un’assurdità, significherebbe nascondere il problema, mentre l’unico modo per guarire è passarci attraverso».
Abbiamo parlato dell’aspetto personale, ma dal punto di vista prettamente musicale e artistico, quali skills pensi di aver acquisito in questi ultimi anni, rispetto al tuo precedente album “Anime di carta”?
«Ho imparato a convivere con l’imperfezione e l’unicità del suono della mia voce, ma anche della mia visione creativa del mondo. Dietro questo disco c’è tutto un lavoro di psicoacustica, per cui il trattamento dei suoni ha un approccio piuttosto carnale, è come se questo album fosse un corpo vivo che pulsa e respira, con tutte le sue imperfezioni».
Per concludere, quali sono gli elementi e le caratteristiche che ti rendono davvero orgoglioso de “La geografia del buio”?
«Sicuramente l’umanità con cui è nato e con cui è stato accolto dal pubblico questo lavoro. Tutte le persone coinvolte hanno dato tanto ai fini della narrazione, aggiungendo anche il loro dolore attraverso ricordi e racconti. Da lì, le nostre storie si sono legate e sono diventate musica. La cosa di cui sono più orgoglioso è questo aspetto corale, dalla fase di concepimento all’immedesimazione nella vita di chi ascolta».
Intervista | Podcast
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© foto di Clara Parmigiani
Nico Donvito
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