domenica 24 Novembre 2024

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Michele Bravi racconta il suo nuovo album, “Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi”

Michele Bravi torna, a distanza di tre anni dal suo precedente lavoro discografico, con Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi, il suo nuovo concept album, in uscita venerdì 12 aprile e già disponibile in pre-order e pre-save.

Il disco – scritto tra Milano, Parigi, Londra e Amsterdam – è un viaggio tra le metafore attraverso la quale assorbiamo la concretezza e il tangibile. Un disco che celebra la natura melodica e scenica della vita interiore, della memoria e dell’immaginazione.

A maggio sarà la volta del ritorno live, con due speciali anteprime a teatro: il 12 maggio al Teatro Dal Verme di Milano e il 26 maggio all’Auditorium Parco della Musica (Sala Sinopoli) di Roma.

Il nuovo disco in studio rappresenta l’apertura di un nuovo scenario nel percorso di ricerca musicale dell’artista che da sempre mescola letteratura e poesia alla musica trasformando la parola in tono emotivo e suono.

Sull’album vi riportiamo alcune dichiarazioni di Michele rilasciate durante un’intervista a All Music Italia.

Quando si pensa all’atto di chiudere gli occhi, spesso vi si associa il concetto di buio. E in questo buio, come canti nel tuo precedente album, è possibile orientarsi. Ma forse non è poi così buio l’universo che si cela dietro due palpebre chiuse…

Quella è una visione semplicistica. Quando si chiudono gli occhi si pensa al buio o al sonno. Ma, in realtà, esiste un fenomeno scientifico che si chiama palinopsia, secondo il quale l’immagine che si sta osservando in un preciso momento rimane impressa dentro la palpebra per una frazione di secondo, magari con contorni e colori diversi.

Quel momento per me è stato un grande punto interrogativo, da cui poi è partita tutta la ricerca del disco. Mi sono infatti chiesto che cosa si imprime dentro di noi di tutto il reale che abbiamo intorno, che cosa vedono gli altri quando vivono una storia. Ho così iniziato un’indagine sull’immaginazione.

Ognuno di noi ha una vita interiore in cui c’è una colonna sonora, un film e un colore costante, che ho cercato di celebrare con questo album, in cui racconto qual è la mia colonna sonora, il mio film e il mio quadro. Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi vuole però essere anche un invito affinché ognuno possa tirar fuori la propria colonna sonora, il proprio film.

Arriviamo così al tuo nuovo album di inediti, Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi. Ci racconti com’è nata l’idea di dividerlo in tre diversi capitoli musicali: lo sguardo, l’immagine e l’iride?

In questo disco l’occhio è una scusa letteraria, un ponte tra quello che c’è fuori e quello che abbiamo dentro. Parlo dunque di sguardo, di immagine e di iride perché, in qualche modo, vuoi anche per tradizione letteraria, siamo abituati a pensare che l’occhio sia lo specchio della vita interiore. Hai presente quando si dice: “Ti si legge negli occhi quella cosa lì“? Tu in realtà non stai dicendo nulla, però “ti si legge negli occhi” che sei felice, annoiata, innamorata…

I tre diversi capitoli musicali di Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi rappresentano tre diversi livelli di introspezione. Lo sguardo è quello che noi vediamo del mondo. L’immagine è quello che stiamo effettivamente vedendo. L’iride, infine, è una sorta di impronta digitale, la cosa più umana, intima, personale ed esclusiva che abbiamo. Pian piano, è come se ci fosse uno zoom sempre più grande per poi entrare all’interno dell’occhio.

In questo processo di introspezione, cosa hai scoperto di Michele?

Ho scoperto che c’è un modo di pensare poetico, che mi piace tantissimo. Sono tanto orgoglioso della mia visione creativa. Tante volte mi ha allontanato dal mondo, perché pensavo fosse strano che io vedessi e sentissi quelle cose. Invece, è un’esclusività, che adesso mi piace raccontare. Se, quando ero a scuola, era il motivo per cui mi isolavo e mi isolavano, ora è la visione che mi permette di incontrare un pubblico, di dire: “Io il mondo lo vedo così. Voi?”. È una cosa che mi affascina tantissimo.

Cosa hai trovato di così affascinante negli scritti di Oliver Sacks tanto da trarne ispirazione per la stesura di questo tuo nuovo concept album?

Di base, la sua narrazione è estremamente umana, romantica e filosofica. Attraverso i suoi scritti ho scoperto che esistono dei casi in cui alcune persone vivono il reale in maniera diversa da come lo viviamo noi tradizionalmente. Questo ovviamente è dovuto a deficit cerebrali di diversa entità.

Al di là di questo, trovo che il fatto di percepire le cose diversamente abbia un significato filosofico potentissimo, perché – in realtà – è una cosa che applichiamo a tutto. Se guardo una candela, io la vedo in un modo. Chi mi dice che tu la stai vedendo nello stesso modo in cui la vedo io? Il mio modo di vedere le cose è diverso dal tuo, perché è influenzato da quello che ho visto ed esperito in passato. Quindi, non potremo mai sapere se vediamo la stessa cosa o meno.

È questo che mi ha affascinato e poi ispirato delle opere di Sacks. Da una parte c’è una solitudine di esperire il mondo, dall’altra la curiosità di capire le altre solitudini che cosa vedono.

Tu hai dichiarato: “Ogni canzone nasce da un gioco di immaginazione”. E allora ti chiederei di usare ancora una volta l’immaginazione per completare questa frase: “Immagina se…”

Immagina se fossimo in una commedia italiana, che cosa succederebbe? Oppure, immagina se si potesse viaggiare nel tempo. O ancora, immagina cosa succederebbe se le leggi dell’universo fossero tabelline con cui si può giocare.

Ecco, Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi è un gioco dell’assurdo. D’altronde, l’immaginazione parla sempre con la lingua dell’assurdo. In questo disco ho provato a dare delle risposte, che sono più o meno fantasiose, più o meno credibili, più o meno reali, ma sono le mie risposte.

Cosa ha apportato Carla Bruni a Malumore francese?

Imprimere la propria voce nella canzone di qualcun altro è come prestare un po’ di te stesso ad un racconto e quel racconto io non l’avrei saputo fare così bene con la mia voce, perché non ho quella vibrazione, quella frequenza. Il fatto che lei abbia deciso di partecipare, per me, è un atto di generosità importantissimo.
In Se ci guardassero da fuori ci scontriamo con la possibilità che la nostra immagine interiore possa non coincidere con l’immagine che gli altri hanno di noi. E questo, spesso, genera paura. Tu che rapporto hai con l’immagine che gli altri hanno di te?

Se penso al mio carattere è un rapporto intricato. Però, dal momento che il mio lavoro mi espone molto sotto questo punto di vista, è una cosa con cui ho imparato a convivere.

Si tratta di un tema che mi piace approfondire e mi affascina analizzare. L’immagine che conosciamo di noi stessi è un’immagine riflessa. Non avremo mai un’esperienza diretta di quello che siamo, di come ci muoviamo, di come ci comportiamo e di quello che facciamo trapelare senza saperlo.

E proprio questa traccia non può che richiamare alla memoria Come mi vedono gli altri di Luigi Tenco. 

Tenco è uno degli artisti che ho più ascoltato nella mia vita, oltre ad essere una grande fonte d’ispirazione. Nei suoi testi ha sempre approfondito dei temi molto forti. La sua grandiosità, però, per me è sempre consistita nel riuscire a raccontare queste grandissime profondità in armonie che fossero quasi degli standard. Insomma, per me Tenco rappresenta proprio un faro.

Ad eccezione di Ti avessi conosciuto prima, brano firmato da Giuliano Sangiorgi, le restanti dodici tracce di Tu cosa vedi quando chiudi gli occhi sono frutto della tua penna. Com’è stato questo viaggio in solitaria?

Io ho sempre scritto i miei dischi, però al mio fianco ho sempre avuto una squadra di autori, qualcuno che mi aiutasse con la geometria della musica. Quest’autonomia di scrittura è stata inizialmente straniante, perché quando sei da solo tutto può essere possibile. E, proprio questa libertà, all’inizio mi ha un po’ spaventato.

Poi, però, ho trovato una forte consapevolezza nell’imprimere la mia visione creativa all’interno di un progetto, cosa che – secondo me – mi aiuterà tantissimo a collaborare con altri artisti in futuro. Non voglio fare l’eremita. Semplicemente, mi serviva indagare la solitudine.

Questo disco è stato scritto in giro per l’Europa, tra Londra, Parigi, Amsterdam e Milano. Ci sono dei luoghi, in cui magari sono anche nate delle canzoni, che sono poi diventati dei posti del cuore?

Sì! Il primo che mi viene in mente è un bistrot a Saint Germain, dove ho scritto diverse canzoni. Poi, c’è anche un altro ristorante a cui sono particolarmente legato, che si trova sempre a Parigi, vicino all’Opera. Qui ho vissuto uno dei momenti più intensi. Eravamo nel mezzo di un ristorante ed io ho iniziato a registrare una canzone. È come se l’avessi sputata fuori.

A maggio ti esibirai in teatro in occasione di due speciali anteprime (il 12 maggio al Teatro Dal Verme di Milano e il 26 maggio all’Auditorium Parco della Musica di Roma).  Puoi già dirci qualcosa sul tipo di spettacolo che proporrai al tuo pubblico?

Al momento sono in una fase di sperimentazione. Per me è interessante e necessario riportare dal vivo la stessa emotività che un ascoltatore ha quando ascolta il disco in cuffia. Quindi, stiamo valutando una serie di situazioni sonore che possano riproporre lo stesso impatto emotivo.

In chiusura, cosa vede Michele in questo preciso istante se chiude gli occhi?

Vedo tanta speranza che questo disco scavi un po’ nelle persone. Per me le metafore sono un modo per crescere. Sarebbe bello se queste mie metafore potessero far crescere qualcuno.